di Lorenzo Infantino da “Il Foglio” del 26 aprile 2017
Non meno di quella individuale, la vita sociale è un ricco campionario di paradossi. E non c’è dubbio che ciò sia in buona parte dovuto alla complessità dei fenomeni. Ma accade sovente che i paradossi siano, più che il prodotto della complicata trama sociale in cui viviamo, l’esito di quel nostro “sonnambulismo” che è consanguineo della superficialità. Attento analista dei processi di delegittimazione del potere, Alexis de Tocqueville si è reso conto che il fallimento della Rivoluzione francese era da imputarsi alla continuità con il passato. Non a caso ha scritto: “gli istituti dell’antico regime (…) sono passati, molto più numerosi di quanto si creda, nella nuova società”. E ancora: “Se mi si chiederà come quella porzione dell’antico regime è potuta essere trasportata, tutta di un pezzo, nella società nuova e in essa incorporata, risponderò che, se il centralismo non è perito nella Rivoluzione, ciò è stato perché esso era appunto il principio della Rivoluzione”. Di qui l’amara conclusione: “sembrava che si amasse la libertà, e si scopre soltanto che si odiava un padrone”.
L’analisi di Tocqueville può essere utile per gettare luce sull’azione delle forze politiche oggi in campo nel nostro paese. La delegittimazione di una parte di esse è dovuta al fatto che, consapevolmente o meno, hanno in modo prevalente agito per impedire lo sviluppo della competizione. Più che propositiva, è stata un’azione negativa, che ha distribuito politicamente risorse, sottraendole a iniziative che, selezionate competitivamente, avrebbero potuto produrre di più e meglio. A testimonianza di ciò, non c’è bisogno di molti indici. La pressione fiscale e la montagna di debito pubblico che ci sovrasta bastano da sole a chiarire i termini della questione. È un problema che ormai ci trasciniamo da decenni. Salvo qualche breve pausa, in cui siamo stati costretti da vincoli esterni, abbiamo ostinatamente favorito la deriva.
Come teme l’agenzia Fitch, il peggio è che all’orizzonte non si profila nulla di diverso. Il “sonnambulismo” in cui amiamo vivere ci tiene a distanza di sicurezza dalla realtà. Ci impedisce di comprendere che il punto cruciale è costituito dall’individuazione delle condizioni che rendono possibili o impossibili lo sviluppo economico e la creazione di posti di lavoro. E, fino a quando non sapremo affrancarci dalle condizioni che ci condannano al declino, non saremo in grado di afferrare che fra le politiche realizzate in passato e quelle che si vogliono realizzare in futuro non c’è soluzione di continuità. Ecco perché bisogna avere la lucidità e il coraggio di cambiare la diagnosi, operare una frattura. In caso contrario, parlare di prima, seconda o terza Repubblica è solamente un modo per nascondere i problemi. E non ci salverà certo la maschera venefica della democrazia diretta, che può solo porre in essere un’ulteriore operazione di autoinganno.
Il fatto è che ci troviamo all’interno di una “bolla” mediatico-culturale che alimenta una vera e propria alterazione cognitiva. Non è diversa dalle “bolle” che periodicamente si generano nel settore economico o in quello finanziario e che spingono a effettuare investimenti erronei, pagati con la conseguente distruzione delle risorse impiegate. Al pari di queste, la “bolla” mediatico-culturale ha prodotto e produce danni, perché la “verità” che impone non ha alcun legame con i problemi da risolvere: li nega e canalizza perciò in maniera dissipativa le risorse disponibili.
Strumento operativo di tale “bolla” è l’intervento pubblico nell’economia. Ma la sua legittimazione proviene dalle “buone intenzioni”, intese come incontrollata espansione dei desideri. La tragedia greca, il melodramma, il romanzo, la psicanalisi e altre forme di riflessione ci dicono che, quali che siano, le “buone intenzioni” non sono mai garanti del risultato che ci viene promesso; fin dalla loro origine, la teoria economica e gran parte delle altre scienze sociali ci hanno ampiamente mostrato quali enormi “cascate” di conseguenze inintenzionali accompagnino le nostre azioni; la nostra vita, quella di ciascuno, dal più al meno fortunato, subisce quotidianamente sulla propria pelle esiti “perversi”. Malgrado ciò, la magia delle “buone intenzioni” ci tiranneggia. A ogni piè sospinto, chiede nuovo intervento politico nell’economia e nella vita dei cittadini. E i fallimenti, che vengono puntualmente attribuiti alle interessate “cospirazioni” degli altri, sono motivo sufficiente per invocare ulteriori interferenze. È un universo “proiettivo”, in cui ogni evento accade intenzionalmente. Il che impone l’esigenza di far prevalere le nostre “buone intenzioni”: perché, in un mondo in cui tutti saranno come noi, regnerà la bontà e sarà cancellata la “tragedia della condizione umana”.
La questione è però che ognuno può dire la stessa cosa dei propri propositi. E in questo modo non si risolve nulla. Le “buone intenzioni” non si giudicano da ciò che si proclama. L’unico loro “banco di prova” è costituito dalle conseguenze prodotte. Il resto è un puro “sonnambulismo” o mistificazione. E qui entra in gioco la stampa, la cui funzione critica dovrebbe severamente contrapporsi a coloro che, per tornare a Tocqueville, vogliono levarci “il fastidio di pensare e la fatica di vivere”.