di Lorenzo Infantino

1. La libertà economica.

Ringrazio gli organizzatori, in particolare Andrea Bernaudo, per avermi invitato ad aprire i lavori di questa assemblea. Non sono abituato a prendere la parola nell’ambito di dibattiti pubblici. La mia vita professionale si è svolta, e si svolge, dentro le aule universitarie, dove ha avuto la possibilità di dialogare nel corso degli anni con migliaia di studenti. Ma non sono qui per esercitare alcun magistero. Al pari di tutti voi, sono un cittadino preoccupato per la situazione in cui versa il nostro paese e desideroso di unire le mie forze alle vostre per cercare di gettare un po’ di luce sul problema che, più di ogni altro, viene da noi oggi avvertito e che minaccia il futuro delle più giovani generazioni. Mi riferisco alla questione del declino economico, che in larga misura è il prodotto dell’ostilità politica nei confronti dell’economia di mercato.

Tutti noi ci definiamo liberisti. “Liberismo” è un termine propriamente italiano, che non esiste nel linguaggio economico e politico di altri paesi. È nato alla fine dell’Ottocento allorché alcuni nostri studiosi, di fronte a forme sistematiche e degenerative di interventismo nell’economia, hanno sentito la necessità di sottolineare che una società liberale non può essere tale senza la libertà economica. Il termine è entrato nell’uso corrente. E tuttavia, a causa dell’opposizione portata all’economia di mercato da tutti i gruppi che hanno cercato protezione nell’intervento dello Stato e dai vari movimenti e partiti di ispirazione collettivistica, al “liberismo” è stato caricato di una connotazione estremamente negativa. A ribaltarne il significato, non è stato sufficiente che pure uomini dell’importanza culturale e politica di Luigi Einaudi si siano apertamente dichiarati “liberisti”. E oggi sono davvero pochi coloro che utilizzano il termine in senso positivo, per indicare cioè la propria adesione all’economia di mercato. Anzi, in modo assai generico e generalizzato, la parola “liberismo”, ulteriormente demonizzata con la puntuale aggiunta dell’aggettivo “selvaggio”, viene usata con lo scopo di colpire l’interlocutore e di paralizzare le sue energie, la sua capacità di affermare la propria identità culturale. È questo l’espediente utilizzato nella battaglia delle idee dagli interventisti e dai collettivisti di ogni estrazione. È una storia lunga a cui, se vogliamo che tutte le nostre libertà e il nostro benessere sopravvivano, dobbiamo reagire con la consapevolezza che i princìpi a cui ci ispiriamo sono quelli che hanno reso possibile la civiltà di cui ora tutti, compresi i nemici della libertà economica e spesso della libertà in generale, beneficiano.

2. La proprietà privata.

Vorrei prendere avvio dalla questione più rilevante. La libertà economica è indispensabile: perché consente a ciascuno di spendere le proprie risorse per raggiungere gli scopi individualmente decisi. Ovviamente, il suo ineludibile presupposto è la proprietà privata. L’illusione di poter realizzare il Regno della libertà attraverso la soppressione della proprietà è stata frantumata dalle tragiche vicende del Novecento. Tuttavia, che senza proprietà privata non ci possano essere libertà individuale di scelta, crescita economica e sviluppo sociale, è qualcosa che sappiamo da secoli. Per una strana ironia, lo hanno affermato anche i fondatori del cosiddetto “socialismo scientifico”. Parlando del dispotismo orientale, Marx ed Engels hanno dato ragione a François Bernier, il medico francese che, dopo essere vissuto alla corte del Gran Mogol, ha lucidamente spiegato che, senza proprietà privata, non ci può essere libertà e tutto ciò di cui questa è creatrice. Ma il nostro Friedrich A. Hayek è stato ancora più illuminante. Ha infatti esteso il discorso all’intera attività economica. Ecco come si è espresso: «Il controllo economico non è solo il controllo di un settore della vita umana, che possa essere separato dal resto; è il controllo dei mezzi per tutti i nostri fini. E chiunque abbia l’esclusivo controllo dei mezzi determina quali fini debbano essere perseguiti, quali valori debbano essere considerati superiori e quali inferiori: in breve, cosa gli uomini devono credere e a che cosa devono aspirare».

Le parole di Hayek ci fanno comprendere che la minaccia non viene solamente dalla diretta e manifesta soppressione della proprietà privata. Questa può continuare a esistere. Se però la mano pubblica sottopone al proprio controllo una parte rilevante dell’attività economica, la proprietà privata avrà un’esistenza meramente formale. Il nazismo non ha abolito la proprietà, ma ha avocato a sé le più importanti decisioni economiche. E ha così dato vita a un sistema economico collettivizzato. Il collettivismo si può perciò realizzare in due modi: tramite la soppressione della proprietà privata o per mezzo di un controllo sempre più esteso dell’attività economica. Il secondo di questi due modi di procedere fa meno paura, perché non persegue la diretta abolizione della proprietà, ma le conseguenze, dal punto di vista delle libertà personali e della competitività del sistema, sono in ogni caso molto gravi.

3. I “redistributori”.

Tutto ciò ci pone nelle condizioni di afferrare in modo decisivo i termini del nostro problema. Il liberalismo estromette la politica dal territorio prettamente economico per rendere possibile la libertà individuale di scelta. Al contrario, che abolisca direttamente la proprietà privata o la confini a un’esistenza puramente formale, il collettivismo pone ogni tratto della vita economica sotto il dominio onnipervasivo della politica; impedisce in tal modo l’esercizio della libertà individuale di scelta e mina le basi dello sviluppo economico. Il che, ovviamente, ci deve preoccupare. Olof Palme ha sostenuto che «il capitalismo è una pecora che dev’essere periodicamente tosata, ma non ammazzata». Tale affermazione contiene due errori. Il primo è costituito dalla reificazione del concetto di capitalismo. Si produce così una duplicazione della realtà: Il capitalismo diviene un’entità dotata di un’esistenza autonoma e distinta rispetto a quella degli uomini e delle donne che operano e vivono quotidianamente. Ma il fatto è che che il capitalismo non è un’entità separata e distinta da noi. Con i nostri amici e con i nostri famigliari, noi stessi siamo il capitalismo: perché traiamo da vivere rendendoci utili agli altri. Tosare il capitalismo significa allora che noi dobbiamo continuamente sopportare la tosatura a beneficio del ceto politico, della sua voracità e dei gruppi sociali che lo affiancano.

Il secondo errore contenuto nell’affermazione di Palme è dato dall’illusione che la pecora possa sopravvivere, che le ripetute tosature non portino al suo dissanguamento. Favorita dal fatto che coloro che detengono il potere politico si occupano prevalentemente della quotidianità, tale illusione spinge a oscurare tutte le conseguenze di medio e lungo periodo, che alterano il sistema di allocazione delle risorse e manomettono le condizioni che rendono possibile la libertà (non solo economica), lo sviluppo e il benessere. È questo l’inevitabile esito delle politiche proposte dai “redistributori”, fra i quali si annovera anche il tanto celebrato Piketty. Il fatto è che la redistribuzione  è il principale strumento del collettivismo. Di fronte al dimostrato carattere liberticida del “socialismo reale” e all’impossibilità di articolare una società complessa sulla base della diretta statalizzazione della proprietà privata, si affidano a uno straripante interventismo, che giustifica col metro di gomma della “straordinarietà” o della asserita “strategicità” l’avocazione di ogni decisione economica da parte della mano pubblica. Esaltano ogni interferenza dello Stato e ne invocano sempre di più. Li conforta l’illusione di edificare alla fine, per usare un’espressione di Alexis de Tocqueville, un potere «assoluto, minuzioso, sistematico, previdente e mite»; aggiungerei anche “fraterno”. Non si rendono conto che pure questa è la «via della schiavitù», che dissipa permanentemente risorse e che in maniera progressiva ci priva della nostra libertà di scelta.

4. La democrazia illimitata.

L’opera dei “redistributori” è chiaramente una continua aggressione al “governo della legge”. Si afferma quella che Hayek ha chiamato «democrazia illimitata», quel contesto in cui «non è più la volontà o l’opinione della maggioranza […] che determina cosa debba fare il governo, ma è il governo che è costretto a soddisfare ogni tipo di interesse particolare, allo scopo di mettere assieme una maggioranza». E ciò (ha precisato ancora Hayek) «porta alla barbarie», perché il potere pubblico resta slegato dai freni delle norme», e produce così «effetti che sono inevitabili, quali che siano le persone a cui il potere stesso viene affidato».

Diviene allora impossibile «far prevalere princìpi generali». Per rimanere tale, la maggioranza «deve continuamente» “remunerare” il sostegno dei diversi gruppi attraverso la concessione di benefici e favori particolari. Il «processo di contrattazione non è altro che un accordo per assistere i propri sostenitori a spese» di quanti non hanno “protezione” politica o che danno il proprio consenso nell’illusione di poter a loro volta ottenere dei vantaggi. Si moltiplicano i provvedimenti che nulla hanno a che vedere con il diritto e che sono emanati sotto la spinta degli interessi più disparati. La legge viene sostituita dalla legislazione, che è lo strumento normativo dell’interventismo economico. Si afferma il “governo degli uomini”. L’uguaglianza dinanzi alla legge, che è l’unica uguaglianza liberale, viene divelta. L’allocazione autoritativa delle risorse prende il posto dell’allocazione competitiva. La politica diventa «lotta per il potere», condotta da parte di «interessi organizzati», che utilizzano l’idea della cosiddetta “giustizia sociale”, degli “interessi nazionali”, del “bene comune” come “copertura” delle proprie reali finalità.

Tale situazione è l’habitat di un demi-monde affaristico, che è il puntuale portato di ogni tipo di interventismo. Ed è a ciò che la politica deve la «propria cattiva reputazione tra la gente comune, poiché si è consapevoli che essa è finalizzata a una serie di contrattazioni tra interessi particolari» (Hayek). Non c’è quindi una causa morale della decadenza politica, ma c’è una causa politica della decadenza morale: perché la decadenza morale è semplicemente l’altro volto della dissipazione, dovuta alla manomissione del processo competitivo di esplorazione dell’ignoto e alla conseguente allocazione autoritativa delle risorse. Che la «democrazia illimitata» produca tali esiti, non è una sorpresa. E il populismo di oggi, che vuole riportare tutto nelle mani dello Stato, è un suo figlio diretto, che afferma di voler combattere contro i favoritismi e i privilegi, ma che nella realtà vuole essere il nuovo e unico soggetto “redistributore”. Il nostro problema non è scegliere la parte politica a cui affidare una nuova opera di redistribuzione. È lottare per ristabilire le condizioni che rendano possibile l’esercizio della nostra libertà e un futuro prospero ai nostri figli.

5. Il mito della sovranità.

Nella nostra opera di difesa dei princìpi liberali, non abbiamo molti compagni di strada. Oltre ai “redistributori”, abbiamo contro il risorgente mito della sovranità, quella «finzione dell’immaginazione», per ricorrere a Luigi Einaudi, che insegue la devastante chimera dello Stato «isolato e sovrano, perché bastevole a se stesso». Recependo passivamente luoghi comuni degni del più ributtante nazionalismo economico, molti ritengono che le barriere protezionistiche, sulla cui critica è nata la teoria economica, possano essere la soluzione al problema della crescita interna. Nulla di tutto ciò è vero. Lo scambio non è altro che il nome che diamo alla cooperazione volontaria fra gli uomini. E la logica impone qui un’incontestabile conclusione: se lo scambio è dannoso a livello internazionale, lo deve parimenti essere a livello interno. Se lo scambio è svantaggioso fra gli europei e gli americani o anche fra gli europei, lo deve allo stesso modo essere fra lombardi e siciliani e, portando alle estreme conseguenze tale impostazione, lo deve essere anche lombardi e lombardi, fra siciliani e siciliani, e addirittura fra i membri di una stessa famiglia. Il protezionismo è un’idea antisociale, che mina la convivenza fra gli uomini. Se ciò che i protezionisti sostengono fosse vero, non sarebbe possibile alcuna forma di cooperazione e, pertanto, non sarebbe possibile alcun tipo di società. Ci troveremmo di fronte alla guerra di tutti contro tutti, davanti al sistematico trionfo della violenza. E la prosperità del mondo occidentale, strettamente legata alla “scoperta” dei vantaggi che lo scambio arreca a tutti contraenti, diverrebbe un indecifrabile enigma.

E non solo. Più il libero scambio è diffuso, maggiore è l’incremento della produttività che esso genera: perché consente a ciascuno di noi di pagare con quel che sa fare meglio quel che sa fare peggio. Chiudersi significa semplicemente mantenere in vita, a spese dei cittadini e della prosperità, attività inefficienti, che affaristicamente prevalgono nella lotta politica finalizzata all’acquisizione di protezioni e privilegi. È la centralizzazione delle più rilevanti decisioni economiche nelle mani del ceto politico; il che coincide, come ho già posto in evidenza, con l’aggressione alla legalità e allo Stato di diritto. Il nazionalismo economico è una forma di collettivismo che, dietro l’idea di interessi nazionali unilateralmente definiti, permette al potere politico di porre in essere ogni forma di arbitrio. Lo anima un sordo spirito “tribale”, che rinuncia alla ragione e che s’illude miserevolmente di poter risolvere tutto con la forza e con l’inganno. Ai demagoghi, irresponsabili impresari della menzogna, occorre chiaramente opporre, parafrasando Samuel Johnson, che il nazionalismo «è l’ultimo rifugio delle canaglie». A coloro che sono vittime inconsapevoli della propaganda protezionistica, bisogna ricordare, con Lessing, che ogni tipo di collettivismo è il «mantello della tirannia». A quanti sul nostro fronte manifestano qualche debolezza di spirito, dobbiamo solamente rammentare le splendide parole che il Maestro di tutti noi, Adam Smith, ha pronunciato nel 1759: «La Francia e l’Inghilterra [… non dovrebbero] invidiare la felicità interna e la prosperità dell’altra, la coltivazione delle terre, il progresso delle manifatture, lo sviluppo del commercio, la sicurezza e il numero dei porti, la competenza in tutte le scienze e le arti liberali […]. Questi sono tutti reali miglioramenti del mondo in cui viviamo. Con essi, il genere umano viene beneficiato e la natura umana nobilitata. In tali miglioramenti, ciascuna nazione dovrebbe sforzarsi non solo di eccellere, ma per amore del genere umano anche di promuovere, e non di impedire, l’eccellenza dei propri vicini». Questo diceva Smith. E a tale insegnamento, ben corroborato dalle vicende storiche, dobbiamo attenerci. Il che chiaramente ci pone sul fronte opposto a quello di coloro che invocano le “svalutazioni competitive” e che non sanno, o dimenticano, che quella monetaria è la forma più «perniciosa» assunta dal nazionalismo economico (L. Robbins).

6. “Liberisti selvaggi”.

Possiamo ora soffermarci sull’accusa che ci viene sovente rivolta: quella di essere noi dei “liberisti selvaggi”. Ebbene, la libertà economica non ha alcunché di “selvaggio”. Essa è resa possibile dal diritto. Ove manchi il diritto, non c’è il mercato; c’è semplicemente la violenza, la sopraffazione, l’inganno. Il primo problema della vita sociale è costituito dalla necessità di rendere fra esse compatibili le azioni dei vari individui. E questo è esattamente il compito svolto dalle norme generali e astratte del diritto. Esse conferiscono agli attori delle facoltà e addossano loro, come contropartita, degli obblighi. Delimitano così l’ambito d’azione di ciascuno. Ed è questo il quadro normativo all’interno del quale si svolge la concorrenza. La posizione e il ruolo di ciascuno è deciso da coloro a cui prestiamo i nostri servizi. Se noi, come beneficiari della sua attività, ci dichiariamo insoddisfatti dell’opera di qualcuno, egli rimane libero di migliorare la qualità dei servizi che presta o di dedicarsi ad altro. La vita di colui che non riesce in una determinata attività non è messa in pericolo. Egli ha la possibilità di occupare una diversa posizione e di svolgere un diverso ruolo. In tutto ciò, non c’è alcunché che fuoriesca dalle regole della civile convivenza. Non c’è alcuna persecuzione, non ci sono campi di sterminio. C’è solo la necessità, a cui nessuno può sottrarsi, di procacciarsi da vivere facendo qualcosa per gli altri. È un dramma con cui tutti quotidianamente facciamo i conti. L’alternativa è vivere alle spalle del prossimo. Il che è quanto tutte le forme di interventismo cercano di realizzare.

Non mancano poi quanti credono che la libertà favorisca il potere economico a scapito del potere politico. Costoro non si rendono conto che nel processo di mercato non ci sono posizioni acquisite una volta per tutte. Bisogna lasciarsi alle spalle certe superficiali semplificazioni. Occorre allora rammentare che sono i consumatori, con le loro decisioni di comprare o di astenersi dal comprare, a dare forza ai produttori. Come sottolineava Ludwig von Mises, il mercato è un sistema di consultazione elettorale, in cui i consumatori votano quotidianamente con ogni loro spicciolo. E il destino dei produttori dipende esattamente da tale consultazione. Ciò significa che i consumatori, il cui scopo esclusivo è essere serviti al meglio, possono in qualunque momento decidere di relegare in una posizione di secondo piano l’imprenditore che fino al giorno prima si trovava all’apice delle sue fortune. Il capitale investito nelle attività produttive non consente di vivere sonni tranquilli. Nuove iniziative sorgono e i consumatori fanno la loro scelta. Come è mostrato dalle vicende di tante famiglie, è difficile che la ricchezza acquisita tramite il mercato possa essere preservata per un lungo periodo. Quanto alla forza del potere economico su quello politico, essa può manifestarsi solamente se la separazione invocata dal liberalismo fra economia e politica viene meno. Ma l’operatore economico che viva in connubio con il ceto politico non è più un imprenditore; è l’avventuriero di cui ci ha parlato Max Weber.
Noi sostenitori della libertà economica non meritiamo quindi quella qualifica di “selvaggi” che ci viene attribuita dai luoghi comuni dell’ideologia collettivistica. E c’è anche un altro punto a nostro favore. Nessuno di noi pone in discussione il fatto che, per varie ragioni, ci siano persone che non possono guadagnarsi da vivere sul mercato. Ci sono malati, anziani, handicappati fisici e mentali, orfani, individui cioè che «soffrono condizioni avverse, che possono colpire chiunque e contro cui molti non sono in grado di premunirsi da soli». Una «società che ha raggiunto un certo livello di benessere può permettersi di aiutare» tali persone (Hayek). Ma tale obiettivo non può essere realizzato da una società che disponga di pochi mezzi. E, detto a nostra difesa, ciò non può costituire il varco attraverso cui l’allocazione politica delle risorse prenda il posto dell’allocazione competitiva.

7. Gli eredi.

Accade spesso agli eredi di non avere consapevolezza della ricchezza ereditata. L’eredità è qui data dalla delicata e complessa articolazione della società libera, che si è lentamente costituita tramite i sacrifici di generazioni di uomini e di donne. Quando il meccanismo della trasmissione culturale viene meno al suo compito, i discendenti sono attaccano la Città dall’interno, colpiscono direttamente il tessuto della cooperazione sociale volontaria. Abbiamo allora un compito da svolgere: far comprendere che tutti siamo «soggetti alle stesse imperfezioni ed esposti alle stesse miserie» (Tocqueville), che non ci sono esseri predestinati, onniscienti o infallibili. Il miglioramento delle nostre nostre condizioni di vita dipende dalle regole che adottiamo. Gli individui devono il loro successo ai modelli di comportamento a cui adattano la loro condotta. Gli eredi non possono semplicisticamente rigettare il grande patrimonio di regole che hanno reso possibile la loro condizione. Devono evitare l’errore logico di mettere a confronto l’imperfetto e umano mondo in cui viviamo con la perfezione dei loro sogni (Nirvana fallacy). E devono rendersi conto che un tale errore è il prodotto della loro mancata comprensione della complessità o anche la maschera del loro autoritarismo, della loro volontà di vedere realizzati a tutti costi i propri dilettantistici schemi sociali.

L’Occidente ha potuto sperimentare la crescita economica e lo sviluppo sociale, perché i suoi abitanti hanno fatto proprie la legalità e la libertà individuale di scelta, la cooperazione volontaria e l’allocazione competitiva delle risorse. Sui semi gettati dal Settecento, il secolo successivo è stato «essenzialmente rivoluzionario». Come uno dei nostri autori ha scritto, «questo suo carattere non è dato dallo spettacolo delle sue barricate, che sono cronaca, ma dal fatto che ha collocato l’uomo medio – la grande massa sociale – in condizioni di vita radicalmente opposte a quelle che sempre lo avevano circondato. Ha invertito l’esistenza pubblica. E la rivoluzione non è consistita nella rivolta contro l’ordine preesistente, ma nell’introduzione di un nuovo ordine, che ha capovolto quello tradizionale. Non è pertanto esagerato dire che, con riferimento alla vita pubblica, l’uomo generato dal secolo XIX è un uomo a parte».

La legalità e la libertà individuale di scelta, la cooperazione volontaria e l’allocazione competitiva delle risorse hanno profondamente cambiato la nostra esistenza. Il che è avvenuto per la ragione che esse alimentano un processo di mobilitazione delle conoscenze e delle risorse disperse all’interno della società. E tale processo non è altro che un procedimento di esplorazione dell’ignoto e di correzione degli errori. Ognuno agisce in base alle proprie «conoscenze locali» e alle risorse disponibili. Per migliorare la propria posizione, ciascuno cerca di servire al meglio gli altri. Tutto ciò viene oggi posto in penombra o addirittura oscurato. C’è una bolla mediatico-culturale che porta a perdere contatto con i dati del problema di fronte a cui ci troviamo e che induce i protagonisti della vita sociale a dirigersi, come in preda a un’irreversibile forma di sonnambulismo, verso il sicuro naufragio. Dobbiamo reagire a tutto ciò!