di Lorenzo Infantino da “Il Foglio” del 17 marzo 2017

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Stralcio della prefazione scritta da Lorenzo Infantino, presidente della Fondazione Hayek Italia, al volume “A proposito di Rousseau” di David Hume. Il testo è stato pubblicato su “Il Foglio” del 17 marzo 2017.

(…) Hume faceva parte della ristretta schiera dei “darwiniani prima di Darwin”. Condivideva con Adam Smith il primato all’interno di quello “sceptical” o “scientific Whiggism”, a cui dobbiamo l’individuazione dei presupposti gnoseologici della Grande Società e delle moderne scienze sociali; dobbiamo anche una penetrante e pioneristica indagine sulla dinamica di un ordine sociale basato sulla libertà individuale di scelta e sulla complessità derivante dalle conseguenze inintenzionali delle azioni umane intenzionali. Sullo stato di natura, sul contratto originario, sulla proprietà privata, sul denaro, i commerci, le arti, la città, il lusso e su ogni altra questione, fra Hume e Rousseau c’era un’irriducibile contrapposizione. E ciò era ovviamente dovuto al fatto che il primo era un “esploratore” che intendeva estendere il più possibile il territorio della libertà individuale di scelta, mentre l’altro intendeva esattamente cancellare quel territorio.

Da evoluzionista quale era, Hume ha rifiutato l’idea di un inizio della società. E non ha esitato a considerare lo stato di natura ”come una semplice finzione, non diversa dall’età dell’oro inventata dai poeti”. Non solo. Hume ha spiegato che i valori non sono veri e non sono falsi, che le ”regole della morale […] non sono delle conclusioni della nostra ragione”. Non c’è quindi una scienza del Bene e del Male; e ciò è l’acquisizione che sta alla base della libertà di coscienza. Rousseau è invece andato alla ricerca della “volontà generale”. Ossia: ha inseguito l’illusione di rendere “nulla” la volontà del singolo attraverso l’individuazione di un punto di vista privilegiato sul mondo. E, quando si è reso conto di avere imboccato un itinerario impossibile, ha candidamente affermato: ”ci vorrebbe un’intelligenza superiore, che vedesse tutte le passioni degli uomini e non ne provasse alcuna; che non avesse alcun rapporto con la nostra natura, e pur la conoscesse a fondo, la cui felicità fosse indipendente da noi, e che tuttavia volesse davvero occuparsi della nostra; e che infine, preparandosi una gloria futura con il passare del tempo, potesse lavorare in un secolo e godere in un altro”. E ha concluso: “Ci vorrebbero degli Dei per dare leggi agli uomini”. Il che costituisce la solenne dichiarazione del suo fallimento: perché l’onniscienza non è una prerogativa umana.

Hume ha fatto discendere l’istituzione della proprietà privata dalla condizione di scarsità a cui soggiace l’uomo; ha reso chiaro che il diritto serve per delimitare i confini fra le azioni, cioè per regolare il conflitto sociale; si è legato indissolubilmente al “governo della legge”, a cui ha pure affidato il compito di limitare il potere pubblico e la sua sfera d’intervento; ha compreso che nell’abbondanza verrebbe meno l’idea stessa di giustizia; ha mostrato i vantaggi di cui beneficiano le parti nella cooperazione volontaria; ha visto nella moneta l’indispensabile strumento della vita aperta allo scambio; ha riconosciuto che, ”in tempi in cui l’operosità e le arti fioriscono, gli uomini sono costantemente occupati e godono del premio tanto dell’occupazione quanto di quei piaceri che sono il frutto del loro lavoro”; ha eguagliato il lusso alla raffinatezza.

Nulla di tutto ciò si trova in Rousseau. Sulla proprietà privata, il suo giudizio sembra altalenare: nel Discours sur l’inégalité, viene condannata, perché ritenuta la causa del conflitto sociale, anziché l’indispensabile strumento per la sua regolazione; nel Discours sur l’économie politique e nel Contrat social, viene accettata; nel Projet de constitution pour la Corse viene rigidamente circoscritta. Ma la questione di fondo è che il modello di società a cui Rousseau è sempre rimasto fedele è quello del collettivismo spartano. Nel Discours sur les sciences et les arts, ha definito Sparta una ”repubblica di semidei più che di uomini”; nel Discours sur l’inégalité, ha respinto la possibilità di riaggiustare ”continuamente” le cose e ha affermato l’esigenza di riplasmare l’esistente, facendo ”piazza pulita, scartando tutti i vecchi residui, come fatto da Licurgo a Sparta, per poter poi costruire un buon edificio”. Il modello spartano è reiteratamente proposto nell’improvvida Lettre a M. d’Alembert; Sparta è presente nel Contrat social; è il punto di riferimento nel Projet de constitution pour la Corse, dove vengono addirittura proposte l’autarchia e l’abolizione del denaro, nonché il calcolo in natura; e Sparta ricompare nelle Considerations sur le gouvernament de Pologne, testo in cui si rammenta che ”Licurgo, per sradicare la cupidigia […], non ha eliminato le monete, ma le ha fatte di ferro”.

L’adozione di Sparta come proprio modello sociale e il rifiuto del denaro, che è il mezzo della libertà individuale di scelta, indicano chiaramente l’obiettivo che Rousseau si prefiggeva. Quanto scritto contro la scienza, le arti, la grande città e il lusso ne è un mero complemento. E lo è pure la sua invettiva contro il teatro, a cui ha attribuito ogni genere di perversità e la corruzione delle donne; eppure, era già autore di opere rappresentate.

Le divergenze teoriche fra Hume e Rousseau erano quindi rilevantissime. E non si limitavano alle questioni fin qui toccate. Hume pensava che l’Inghilterra godesse, ”se non del migliore sistema di governo, perlomeno del più completo sistema di libertà mai visto e conosciuto dal genere umano”. E, richiamando l’esperienza del terrore vissuta durante la Rivoluzione puritana, era dell’idea che il ”governo popolare” avrebbe sradicato ogni forma di libertà, perché avrebbe mandato in pezzi la costituzione e assunto un potere illimitato e vessatorio. Rousseau era di tutt’altro avviso. Scriveva: ”il popolo inglese crede di essere libero, ma si sbaglia di grosso”; “i deputati del popolo non sono (…), né possono essere i suoi rappresentanti”; ”nelle antiche repubbliche, e anche nelle monarchie, mai il popolo ha avuto rappresentanti”; ”la stessa parola era ignorata. Confermando la diagnosi di Hume, toccherà poi a Benjamin Constant gettare nuova luce sulle conseguenze del ”governo popolare”: ”non appena la sovranità deve fare uso del potere detenuto o, in altre parole, non appena occorre procedere all’organizzazione pratica del potere […], l’azione posta in essere nel nome di tutti è necessariamente, ci piaccia o no, l’azione di un singolo individuo o di pochi individui, accade cioè che, nel sottomettersi a tutti […], ciascuno si sottomette a coloro che agiscono nel nome di tutti”.

Giungiamo così allo strato più profondo della questione. Hume non credeva nella possibilità di poter avere esseri perfetti; riteneva che, per rendere possibile la cooperazione sociale, fosse necessario impedire all’uomo, quando è al peggio della propria condizione, di procurare danno al prossimo. Il che sta alla base della teoria liberale della società. Rousseau si poneva invece l’insolubile problema di espungere il male dalla vita degli uomini. Lo spiega il vicario savoiardo: ”se (…) considero la società umana come tale […], non vi vedo che confusione e disordine, e nasce il problema di spiegare il male sulla terra”. Qual è la causa del male? ”Tutto è bene quando esce dalle mani dell’Autore delle cose, tutto degenera fra le mani dell’uomo”. Anzi, è già degenerato. ”In quello che è ormai lo stato delle cose, un uomo che dalla nascita fosse abbandonato a se stesso in mezzo agli altri sarebbe il più deformato di tutti. I pregiudizi, l’autorità, la necessità, l’esempio, tutte le istituzioni sociali nelle quali ci troviamo sommersi soffocherebbero in lui la natura e non metterebbero nulla al suo posto”.

Il punto decisivo è stato ben colto da Ernst Cassirer, il quale ha giustamente scritto: ”là dove Voltaire, d’Alembert, Diderot vedevano semplici difetti della società, semplici errori della sua organizzazione, che si sarebbero dovuti man mano correggere, Rousseau vedeva piuttosto la colpa della società”. Bisogna allora raderla al suolo e riedificarla dal nulla. Essa è nata da un patto fraudolento, mediante il quale il ”ricco” ha realizzato il ”progetto più meditato che lo spirito umano abbia mai formulato: utilizzare a proprio vantaggio le forze di coloro che l’attaccavano, fare degli avversari i suoi difensori, ispirare loro altri princìpi e dar loro altre istituzioni, che gli fossero tanto favorevoli  quanto il diritto naturale gli era contrario”. Occorre perciò un nuovo ”patto sociale”, che cancelli quello esistente. La promessa rousseauiana è una ”forma di associazione che con tutta la forza comune difenda e protegga la persona e i beni di ogni associato, e mediante la quale ciascuno, unendosi a tutti, obbedisca […] soltanto a se stesso”. Ciò è quanto Rousseau ha promesso. Ma l’obiettivo che intendeva conseguire era ben altro: munire la ”volontà generale”, cioè il potere pubblico, di una ”forza reale superiore all’azione di ogni volontà particolare”: perché, ”se le leggi delle nazioni potessero avere, come quelle della natura, un’inflessibilità che mai nessuna forza umana potesse vincere, la dipendenza dagli uomini ridiventerebbe allora quella dalle cose”.

È in questo modo che Rousseau si prefiggeva di edificare il “regno della virtù”. Sparta era semplicemente una società collettivistica. Ma il collettivismo “giustificato” dall’idea della redenzione dal male produce, come abbiamo tristemente sperimentato, il terrore totalitario. Ed è caratteristica di ogni forma di totalitarismo promettere machiavellicamente la soluzione dei “problemi maledetti” della condizione umana. Ma ciò a cui realmente punta o che, in ogni caso, realizza è la più violenta e onnipervasiva repressione della libertà individuale di scelta.

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