di Lorenzo Infantino (Il Sole24Ore, 4 marzo 2016)
Mercoledì sera è venuto a mancare Sergio Ricossa: il maestro, l’economista, l’uomo. Dopo la morte di Bruno Leoni, di cui era stato amico, Ricossa è stato il maggiore punto di riferimento dei pochi liberali italiani. Erano anni in cui le idee di libertà non andavano di moda. Il liberalismo era considerato dai più come una triste e marginale sopravvivenza del passato. I suoi sostenitori erano ritenuti dei nostalgici, le cui deboli forze non avrebbero potuto resistere all’inarrestabile dialettica della Storia. I destini progressivi dell’umanità erano affidati a utopie salvifiche, che promettevano l’eliminazione di tutti i “problemi maledetti”.
In una tale situazione, Sergio Ricossa, nato a Torino nel 1927, ha dovuto vivere contro il proprio tempo. Il clima culturale e politico gli è stato ostile. Le incomprensioni del mondo accademico non sono mancate. Gli è stata perfino preclusa la collaborazione a importanti testate giornalistiche. E quando, sul finire degli anni Sessanta, ha proposto al lettore italiano due testi rilevanti (L’abuso della ragione e La società libera) di Friedrich A. von Hayek, il maggiore pensatore liberale del Ventesimo secolo, quei volumi sono andati direttamente al macero. Ma tutto ciò non ha indebolito le sue energie. Per i pochi che desideravano fare uso della ragione critica e sottrarsi al conformismo e alla bigotteria culturale, Ricossa (utilizzo delle parole che egli stesso ha usato nei confronti di Ludwig von Mises) è stato il «garante della speranza che di fatale vi è nulla e che la libertà ha un futuro».
Ricossa ha proposto un liberalismo di respiro internazionale. Bruno Leoni lo aveva portato alla Mont Pèlerin Society, l’associazione di studiosi liberali fondata nell’immediato secondo dopoguerra da Hayek (e di cui anche Luigi Einaudi ha fatto parte). Qui Ricossa ha abbandonato i panni del tecnico dell’economia. Ed è divenuto un intellettuale capace di investigare le ragioni gnoseologiche della libertà, di spiegare che quella umana è una condizione di ignoranza e di fallibilità, che la competizione è un irrinunciabile processo di esplorazione dell’ignoto e di correzione degli errori e che solo tramite essa è possibile minimizzare il potere dell’uomo sull’uomo. La Casa Editrice Rubbettino ha voluto negli anni recenti ripubblicare tutti i suoi scritti divulgativi. Ne sono stato il curatore, temendo in ogni momento di non essere in grado di onorare la sua opera.
Ricossa ha unito in sé acume, cultura e ironia. E, come tutti coloro che fanno della conoscenza uno strumento di orientamento e non di dominio, è stato sempre pronto ad accogliere chiunque gli si rivolgesse in cerca di un suggerimento o di un aiuto. Ha elargito il suo luccicante liberalismo con generosità, senza risparmio di energie. Lo ha fatto con la parola, trattando anche i più giovani con immediatezza e familiarità. E lo ha fatto con un’impareggiabile penna che ad altri ha rammentato Montaigne, Voltaire, Renard. Più appropriato mi sembra il confronto con il Tocqueville dei Souvenirs, con colui che, attraversando le strade di Parigi nelle giornate del 1848, ha saputo finemente mettere in evidenza gli aspetti paradossali di quegli avvenimenti.
Ricossa avrebbe meritato dei riconoscimenti pubblici. Ma questi non gli sono mai venuti. È probabile che, se gli fossero stati tributati, se ne sarebbe sottratto. Gli unici riconoscimenti ai quali ambiva erano quelli della stima personale. Abbiamo trascorso una bellissima serata del settembre del 2002, alla vigilia di un convegno che, fuori dalle convenzioni accademiche, abbiamo voluto dedicare alla sua opera. Fra le altre personalità internazionali, c’era quella sera Lord Harris of High Cross, un altro “garante” della libertà. La soddisfazione di Ricossa era palese. Ed era esattamente il prodotto della sincera stima di cui si sentiva circondato e del fervore che alimentava i nostri rapporti. Caro Sergio, coloro che ci sanno dare qualcosa rimangono sempre con noi!