di Pierpaolo Benigno e Lorenzo Infantino (da “Il Sole 24 Ore” del 24 maggio 2017)
Fin dalle origini della disciplina, comprendere attraverso quale meccanismo di selezione possa emergere una moneta unica, possibilmente la migliore in circolazione, è un problema che ha impegnato numerosi studiosi di economia. Volgendo lo sguardo agli ultimi centocinquant’anni, i contributi di Carl Menger e di Friedrich A. von Hayek appaiono sicuramente i più rilevanti. E, alla luce di quanto questi due autori hanno insegnato, l’adozione dell’euro come moneta unica di un gruppo di paesi europei è senz’altro una forma di coercizione che non ha precedenti nella storia. Occorre poi aggiungere che la teoria delle aree valutarie ottimali, di cui Robert Mundell è stato il principale proponente, ha messo in discussione la stabilità di aggregazioni valutarie eterogenee, cioè soggette a perturbazioni idiosincratiche, formate da mercati dei beni e del lavoro marcatamente regionali e, nel nostro caso, addirittura nazionali.
Tutto ciò ci dice chiaramente che l’adozione dell’euro è stato la realizzazione di un programma indubbiamente ardito. È pertanto lecito porsi, come ha giustamente fatto Luigi Zingales, il problema dell’uscita da questa forma di coabitazione forzata. Ma il punto non è questo. E bisogna affrontarlo con molto senso di responsabilità, perché i processi economico-sociali non sono piccoli esperimenti da laboratorio, ma fenomeni complessi.
Pur con tutte le sue forzature, l’euro «ha portato nella maggior parte dei paesi dell’Europa continentale alla sparizione del nazionalismo monetario e dei saggi di cambio flessibili». E, se guardiamo le cose dal punto di vista dei meccanismi di selezione di una “moneta buona”, dobbiamo riconoscere che ci è stata imposta una moneta più che buona, migliore della vecchia e di ogni possibile lira futura. L’euro ci ha dato un periodo di stabilità monetaria e ci ha fatto beneficiare di saggi d’interesse e d’inflazione che il nostro paese non ha mai fatto registrare in passato. E, quanto all’eterogeneità dell’area monetaria che ne è nata, essa avrebbe potuto essere sconfitta se ci fossimo aperti a un processo di imitazione dei meccanismi economici degli altri paesi, rendendo più flessibile il mercato interno e guadagnando così in termini di competitività internazionale. Al che sarebbe stato necessario aggiungere una coerente disciplina di bilancio.
Più che all’euro, bisogna allora volgere lo sguardo a quel che non è stato fatto. E ciò spinge a dire che, se c’è stato un errore, forse è quello commesso da coloro che ci hanno “donato” una moneta troppo buona, che ci ha consentito di “presentare” i bassi saggi d’interesse e d’inflazione come una nostra conquista. Di qui il furbo sottinteso che qualunque riforma del paese sarebbe stata ormai superflua. Ma la crisi ha scoperchiato le cose e ci ha posto nudi davanti ai nostri problemi. Ciò significa che noi, non diversamente dalla Grecia, non meritavamo di avere la moneta che ci è stata “donata”. Ed ora siamo anche capaci di scagliarci contro l’euro, per rimpiangere i tempi in cui si stava peggio e per sognare di tornare a stare peggio.
Tuttavia, quando si parla di uscire dall’euro, occorre apertamente spiegare ai cittadini, al di là dei noti meccanismi da manuale sulle illusorie svalutazioni competitive, che l’abbandono della moneta unica sottende un fine principale: il ritorno esplicito e senza briglie alla politica del lassismo di bilancio e dell’accumulazione del debito. Il che comporterebbe un costo elevatissimo: perché queste sono esattamente le sorgenti di quell’inganno economico-finanziario che, declinato con la promessa di far contenti tutti, ha condotto alla caduta della produttività e del prodotto. E non solo. Dopo l’eventuale uscita dell’euro, sarebbe davvero difficile pensare al libero scambio con i nostri vecchi partner europei. Senza dimenticare che l’abbandono dell’attuale valuta comporterebbe l’adozione di una moneta che, rispetto all’euro, dovrebbe essere inizialmente svalutata di circa il trenta per cento; il che si tradurrebbe in una cocente perdita di potere di acquisto da parte di pensionati, percettori di reddito fisso e risparmiatori. Last but not least, bisognerebbe poi aggiungere il costo, in termini di conflitto sociale, determinato da un simile e ingestibile processo.
L’euro non può essere il “capro espiatorio” delle nostre negligenze e irresponsabilità. Già nel 1759, Adam Smith scriveva: «La Francia e l’Inghilterra [… non dovrebbero] invidiare la felicità interna e la prosperità dell’altra, la coltivazione delle terre, il progresso delle manifatture, lo sviluppo del commercio, la sicurezza e il numero dei porti, la competenza in tutte le scienze e le arti […]. Questi sono tutti reali miglioramenti del mondo in cui viviamo». Smith aveva lucidamente visto che, pure in campo internazionale, la cooperazione sociale porta vantaggi a tutti. Gli esclusi sono solamente coloro che rifiutano ogni disciplina economico-finanziaria.