liberalismo

di Lorenzo Infantino (dalla prefazione di “Liberalismo” di Friedrich A. von Hayek, Rubbettino 2012)

Non vi è sulla terra autorità tanto rispettabile in se stessa, o rivestita di un diritto tanto sacro, che vorrei lasciar agire senza controllo e dominare senza ostacoli. (Alexis de Tocqueville)

1. Contro il Grande Legislatore

Friedrich A. von Hayek ha scritto Liberalism nel 1973, su richiesta dell’Istituto Treccani (1). Il che è avvenuto nello stesso anno in cui l’Autore ha pubblicato Rules and Order, il primo volume di Law, Legislation and Liberty, l’opera più compiuta della sua maturità (2). Il saggio che qui si presenta può perciò essere visto come un’agile ed estrema riduzione di una mappa teorica, vasta e complessa, alla cui elaborazione Hayek era già impegnato da quasi mezzo secolo.

Se vogliamo utilizzare una sintetica definizione, possiamo considerare il liberalismo come l’istituzionalizzazione della libertà individuale di scelta, conseguita tramite la limitazione e il controllo del potere pubblico (3). È noto che l’inventariazione e la soluzione dei problemi della vita individuale e collettiva possono essere affidate all’azione dei governati o possono essere fatte proprie dai governanti. La teoria liberale imbocca la prima delle due strade. Sottrae quindi la cooperazione fra gli uomini alle prescrizioni del potere pubblico e ne fa l’oggetto della scelta individuale. Ossia: la limitazione della sfera d’intervento dei pubblici poteri è contestuale al «recupero» di un estesissimo territorio, su cui è reso possibile l’esercizio dell’autonomia decisionale dei cittadini.

Il liberalismo non punta tuttavia all’estinzione della presenza pubblica. Come Hayek precisa, «il liberalismo si distingue nettamente dall’anarchismo e riconosce che, se tutti devono essere quanto più liberi, la coercizione non può essere interamente eliminata, ma soltanto ridotta al minimo indispensabile, per impedire a chicchessia […] di esercitare una coercizione arbitraria a danno di altri» (4). Il potere pubblico è pertanto insopprimibile. Deve però limitarsi a svolgere una funzione di servizio nei confronti della libera cooperazione sociale. «Né Locke, né Hume, né Smith, né Burke […] si sono mai posti a difesa di un completo laissez faire, che […] in senso letterale non è mai stato affermato da nessuno degli economisti classici inglesi. […] la loro posizione non è stata mai contraria allo Stato come tale, né incline all’anarchia, che è la conseguenza logica della dottrina razionalistica del laissez faire; […] ha preso in considerazione tanto le adeguate funzioni quanto i limiti dell’azione dello Stato» (5).

Hayek ha posto l’opzione liberale a favore della scelta individuale e della cooperazione sociale (volontaria) su un’ampia e profonda base teorica. Ha riconosciuto a Locke il merito di avere fornito una «comprensiva giustificazione filosofica della Gloriosa Rivoluzione» (6). Ma ha fatto leva su quel che Duncan Forbes ha chiamato «scientific Whiggism» o anche «sceptical Whiggism» (7). Sin da Economics and Knowledge, la conferenza tenuta al London Economic Club il 10 ottobre del 1936, il cui testo è stato poco dopo (1937) pubblicato su «Economica» (8), Hayek ha insistito sull’ignoranza e la fallibilità umane, soffermandosi in particolare sulla dispersione sociale delle conoscenze di tempo e di luogo. È un tema che affonda le proprie radici nell’opera di Adam Smith, il quale sosteneva che «ognuno, nella propria condizione locale, può giudicare molto meglio di qualsiasi uomo di Stato o legislatore quale sia la specie di industria interna che il suo capitale può impiegare» (9). Da cui la conclusione che «il sovrano è completamente dispensato da un dovere nell’adempimento del quale nessuna saggezza o conoscenza umana può mai essere sufficiente: il dovere di sovrintendere all’attività dei privati e di dirigerla verso le occupazioni più idonee all’interesse della società» (10).

Smith non è stato il solo ad argomentare in tale senso. Tutti i moralisti scozzesi hanno posto a base della limitazione del potere pubblico delle ragioni gnoseologiche. Lo si può vedere in David Hume, Adam Ferguson e John Millar (11). Essi hanno colpito mortalmente il mito del Grande Legislatore (12); e hanno collocato al suo posto una teoria positiva della cooperazione volontaria.

È tuttavia opportuno rammentare che ciò che quei pensatori hanno fatto non può essere disgiunto dall’opera di Bernard de Mandeville (13). Questi aveva già messo in luce meridiana i limiti della ragione. Aveva spogliato l’essere umano di tanti gratuiti meriti. E i moralisti scozzesi si sono trovati dinanzi a un itine- rario già prefigurato e in parte tracciato.

La formulazione del problema del potere pubblico è stata capovolta. Il mito del Grande Legislatore spinge a cercare qualità (quali l’onniscienza o la perfezione morale) che gli uomini non hanno; o spinge a rendere permanente quel che l’essere umano può solo «occasionalmente fare» (14). Ma non è qui la soluzione. Anzi, conferire il potere sulla scorta esclusiva di presunte qua- lità personali è ciò che crea il problema: perché quelle presunte qualità vengono utilizzate a giustificazione di un potere privo di limiti. Occorre allora avere regole e controlli, che riducano al minimo la possibilità dei governanti di danneggiare i governati (15). La questione è impedire all’uomo di fare il peggio quando è al peggio, condizione a cui nessun essere umano può sottrarsi. Ecco quindi Hume affermare che le costituzioni devono essere fatte in modo tale che, tramite «freni e controlli», anche un «furfante» sia messo nella condizione di recare il minor danno possibile (16). Come dire che bisogna voltare le spalle al «governo degli uomini» e passare al «governo della legge». Il che non è ovviamente un’idea nuova nella storia dell’umanità. Basti solo pensare a quanto in merito è stato scritto da Aristotele o da Cicerone nell’antichità e da Locke nella fase storica che ha preceduto Mandeville e i moralisti scozzesi (17). Le argomentazioni svolte da quest’ultimo gruppo di autori hanno però un’energia nuova. Lo vedremo nel prossimo paragrafo.

2. L’ordine inintenzionale

Opporre al «governo degli uomini» delle sistematiche ragioni gnoseologiche significa scagliargli contro una forza straordinariamente dirompente, capace di radere al suolo ogni possibile difesa. Gli uomini sono fallibili. E non c’è «causa» che possa cambiare la loro condizione. Il che implica l’accettazione del processo di secolarizzazione, cioè a dire della separazione fra politica e religione e anche della separazione fra la politica e tutte le concezioni finalistiche della storia. Nulla può infatti cambiare la fallibilità umana. È pertanto necessario abbandonare l’idea che possa esistere un «punto di vista privilegiato sul mondo», una fonte superiore della conoscenza, pubblicamente accettata come tale.

Del lavoro portato a termine da Mandeville e dai moralisti scozzesi, tutto ciò è però solo una parte. L’abbattimento del mito del Grande Legislatore lascia infatti un vuoto da colmare. Che cosa porre al posto della cooperazione prescrittiva? Come rendere possibile il co-adattamento delle azioni individuali, cioè a dire l’ordine sociale? La risposta a tali interrogativi costituisce la parte più squisitamente positiva dell’opera degli autori in discussione. Ed è il loro più grande contributo alla nascita delle scienze sociali, senza cui il colpo inferto al mito del Grande Legislatore sarebbe rimasto un lavoro incompiuto.

Mandeville e i moralisti scozzesi hanno in particolare ritenuto che il territorio lasciato scoperto dalla rinunzia alla direzione centralistica della vita collettiva dovesse essere occupato dalla cooperazione volontaria. Ma ciò è solo il punto di arrivo, dietro cui si celano alcuni indispensabili e rilevanti passaggi.

Quando c’è un Grande Legislatore che prescrive i contenuti delle nostre azioni, l’ordine è il prodotto intenzionale di una mente che centralizza ogni decisione. Se tuttavia dobbiamo rinunziare alla «direzione unitaria», perché manca una fonte privilegiata della conoscenza e quel poco che sappiamo è altamente disperso all’interno della società, bisogna affidarsi a un processo sociale, che sia il più allargato possibile. Di qui il problema: come rendere reciprocamente compatibili le azioni dei singoli individui?

L’originalità della proposta di Mandeville e dei moralisti scozzesi sta nel fatto che all’ordine intenzionale, costruito da una mente centralizzatrice, essi hanno opposto l’ordine inintenzionale; ossia: una compatibilità delle azioni, che si forma senza obbedire a un piano unitario. La vita collettiva non è resa possibile da un accordo sugli scopi da perseguire, da una gerarchia obbligatoria dei fini. Se lo fosse, si rimetterebbe in gioco la soluzione di carattere prescrittivo, perché ognuno dovrebbe adeguarsi a quella gerarchia. Per potersi affrancare dallo schema coercitivo, è necessario che la cooperazione fra gli individui sia invece incentrata sull’esclusivo scambio di mezzi. Sulla base delle proprie conoscenze e della proprie risorse, ognuno decide i propri fini. Nessuno può però perseguirli senza l’intervento dell’Altro, giacché non c’è alcuno che possa essere autosufficiente. È perciò necessaria la cooperazione altrui. E ciascuno, in cambio della cooperazione che chiede, offre alla controparte dei mezzi. Dal che discendono due importanti conseguenze: a) cooperiamo alla realizzazione delle finalità degli altri, ma normalmente non le conosciamo e, se anche le conoscessimo, potremmo non condividerle (18): è così che ognuno favorisce inintenzionalmente il perseguimento degli scopi altrui; b) la mancanza di un accordo sui fini intensifica ed estende la cooperazione sociale, che è di solito cooperazione fra sconosciuti (19).

Si può quindi dividere l’azione di ciascuno in due parti: in quel che direttamente facciamo per realizzare i nostri scopi e in ciò che dobbiamo fare a beneficio degli altri, per ottenere la loro cooperazione (20). Mandeville ha scritto che «tutti quanti, volgendo i vizi e le debolezze degli altri a proprio vantaggio, [cerchiamo] di procurar[ci] da vivere nel modo più facile e diretto che il [nostro] talento e le [nostre] capacità consentono» (21). Affrancandoci dal linguaggio mandevilliano, ciò significa che, per poter conseguire i nostri fini, dobbiamo rendere dei servigi agli altri, favorire la realizzazione dei loro progetti, di cui peraltro non conosciamo lo specifico contenuto. Il che coincide con l’affermazione di Hume, secondo cui l’interesse di ciascun individuo è «vantaggioso» agli altri (22). Ed è l’idea che Montesquieu ha espresso con le seguenti parole: «ognuno di noi promuove il bene pubblico, mentre pensa di promuovere solamente i propri interessi» (23). Josiah Tucker ha formulato lo stesso concetto, sostenendo che gli «sforzi rivolti al perseguimento dei propri interessi» promuovono l’«interesse pubblico» (24). E Adam Smith dirà più tardi: «dammi ciò di cui ho bisogno e avrai quel che ti occorre» (25).

Chiunque voglia soddisfare i propri bisogni o realizzare i propri progetti deve pertanto favorire il conseguimento dei fini altrui. Le azioni devono co-adattarsi. Il che dà vita a un ordine sociale che non rientra nei piani individuali e che nessuno può previamente programmare. Tutto ciò è stato da Adam Smith reso anche con l’immagine della «mano invisibile»: un meccanismo sociale che, alla luce di quanto testé detto, non ha nulla di misterioso. Indica solo che ogni atto individuale è necessariamente un Giano bifronte, al servizio di finalità proprie e altrui. Il che è in via generale un’applicazione della teoria delle conseguenze inintenzionali delle azioni umane intenzionali (26), che tra l’altro mostra come la cooperazione volontaria sia un gioco a somma positiva, che avvantaggia cioè tutte le contro- parti: perché nessuno liberamente accetta di partecipare a uno scambio che non possa migliorare la propria posizione.

È così che si dà autonomia alla società civile. Se ragioni gnoseologiche abbattono il mito del Grande Legislatore, l’affermazione di un ordine sociale di tipo inintenzionale colma il vuoto lasciato dalla caduta di quel mito. Il potere pubblico diviene un complemento della vita sociale, non è più la sua variabile indipendente. Il che non è un problema. Infatti, degradare la mano pubblica a risorsa residuale «è lontano dall’essere l’insalubre sintomo della negazione dell’uomo come essere sociale, di un innaturale “atomistico” e “astratto” individualismo […]. Al contrario, è l’uomo come essere sociale che ha il minimo bisogno di ricorrere al potere pubblico, proprio perché produce […] cooperazione volontaria» (27). E la questione non è solo questa: perché l’ingresso nel territorio dell’ordine inintenzionale volta radicalmente le spalle a qualunque ipotesi contrattualistica e immette nell’ambito squisitamente evoluzionistico (28). Non è un caso che, con riferimento a Montesquieu, Burke e Savigny, Sir Frederick Pollock abbia scritto che si tratta di «darwiniani prima di Darwin» (29). Ma tale denominazione spetta anzitutto a Mandeville e Hume, ai quali bisogna ovviamente aggiungere Smith, Ferguson e Millar (30).

È quindi possibile sostituire l’ordine prescrittivo con il co- adattamento volontario delle azioni. Perché ciò avvenga non è però sufficiente affrancarsi dal «punto di vista privilegiato sul mondo». A fianco a tanto, bisogna collocare la proprietà privata e il sistema giuridico a essa correlato. Senza detenzione privata delle risorse, non ci può infatti essere libertà di scelta. Hayek ha espresso tutto ciò in termini paradigmatici: «Il controllo economico non è solo il controllo di un settore della vita umana, che possa essere separato dal resto; è il controllo dei mezzi per tutti i nostri fini. E chiunque abbia l’esclusivo controllo dei mezzi determina quali fini debbano essere perseguiti, quali valori deb- bano essere considerati superiori e quali inferiori: in breve cosa gli uomini devono credere e a che cosa aspirare» (31). Se agli attori viene sottratta la proprietà, viene perciò meno la base materiale della loro libertà di scelta. Ma c’è di più. Il sistema giuridico connesso alla proprietà privata, proprio perché deve rendere possibile l’esercizio dell’autonomia individuale, è costituito da norme generali e astratte, che hanno come scopo la delimitazione dei confini fra le varie azioni. Cioè: non possono prescrivere contenuti o scopi; possono solo indicare quel che agli attori non è consentito fare, che è poi quanto reca danno agli altri (32).

Ne discende che l’interazione fra i soggetti dà luogo a un processo ateleologico. Mancando il «punto di vista privilegiato sul mondo», ogni attore è titolare di autonomia decisionale. La proprietà privata consente di esercitare tale autonomia, nella quale ciascuno mobilita la propria conoscenza e le proprie capa- cità. Si accende così un estesissimo «procedimento di scoperta», che è anche un procedimento di esplorazione dell’ignoto e di correzione degli errori e di cui non è possibile conoscere in anticipo l’esito (33). Si comprende allora perché il bene comune non può essere una meta previamente decisa; è dato invece da un ordine astratto (un insieme di norme giuridiche che non impongono un contenuto specifico alle azioni), che garantisce il co-adattamento delle iniziative individuali, ma che «lascia indeterminato il grado in cui i molteplici bisogni particolari saranno soddisfatti», lascia cioè indeterminato l’ordine che concretamente si realizzerà (34).

3. Utilità delle regole e utilità degli atti

Quanto precede delinea un liberalismo di tipo evoluzionistico, che è quello dentro il cui solco si trovano anche Constant, Guizot e Tocqueville. È la concezione che Hayek ha fatto propria e a cui ha cercato di dare nuovo sviluppo. E tuttavia, come lo stesso Hayek precisa nelle pagine che seguono, c’è un’altra tradizione, che sembra coincidere con la prima: perché condivide alcuni postulati di base, quali la libertà di pensiero, di parola e di stampa (35). Ma il suo principio ispiratore è di carattere razionalistico o, come Hayek anche dice, costruttivistico. Il liberalismo che affonda le proprie radici nella tradizione dello «sceptical Whiggism» afferma con forza l’autonomia della società civile. Ossia: considera la convivenza e la società come «termini equipollenti» (36). E vede nel legame che tiene assieme gli individui un vincolo endogenamente prodotto. La conseguenza è che lingua, costumi, usi, diritto e tutto ciò che è umano diviene una «secrezione spontanea» o inintenzionale del rapporto intersoggettivo (37).

Il liberalismo di carattere costruttivistico pretende invece che quanto è sociale sia creazione consapevole della mente umana. E ciò esclude che sia la convivenza a «secernere» per via endogena le sue norme e le sue istituzioni (38): l’ordine sociale deve essere prodotto intenzionalmente, il legame che unisce gli individui deve essere imposto esogenamente. La conseguenza è che il potere pubblico ridiventa una variabile indipendente, la cui sfera d’intervento non può più essere limitata. E l’obiezione di Hayek è puntuale: «la credenza che tutte le leggi che gover- nano l’azione degli individui siano il prodotto di una attività legislativa appare così ovvia all’uomo moderno che il dire che la legge è precedente alla attività di fare le leggi assume quasi il carattere di un paradosso. Tuttavia, non può esservi dubbio che il diritto sia esistito per molte epoche prima che all’uomo venisse in mente di poterlo creare o modificare» (39). Bisogna pertanto liberarsi da una concezione «errata», «fondamentale per il razionalismo costruttivista che da Cartesio e Hobbes, attraverso Rousseau e Bentham, fino al positivismo giuridico contemporaneo, ha impedito agli studiosi di vedere» quale sia la corretta relazione fra diritto, società e potere pubblico (40).

Per dare una più chiara identità ai due tipi di liberalismo, si può affermare che quello evoluzionistico si ispira all’utilità delle regole, che devono garantire l’ordine sociale, pur lasciandolo indeterminato. C’è qui la comprensione che non vi è nulla di più fatale «nella nostra condotta di quella qualità che ci spinge a preferire tutto ciò che è presente a quel che è distante e remoto» (41). E c’è l’idea che pure «un atto isolato di giustizia è spesso contrario all’interesse pubblico, e se resta isolato, senza essere seguito da altri atti, può di per sé risultare molto dannoso per la società» (42). Ossia: l’utilità delle regole è ciò che dà fondatezza al «governo della legge».

Il liberalismo razionalistico ha invece come suo ago magnetico l’utilità degli atti. Esso vive quindi nell’immediatezza, cancella totalmente il problema delle conseguenze non dirette o inintenzionali. Come Dugald Stewart ha giustamente posto in evidenza, «il frequente appello all’utilità come misura dell’azione tende a introdurre incertezza rispetto alla condotta degli uomini», giacché un’azione a cui si attribuisce minore utilità viene continuamente sostituita da altre a cui si assegna maggiore vantaggio (43). E ciò mina lo stesso processo di interazione, che diviene imprevedibile (44). L’utilità degli atti permette «eccezioni alle più importanti regole»; sanziona troppo benevolmente, quando il fine abbia una qualche attrattiva, «il ricorso a mezzi di dubbia accettabilità»; e «consente una troppo estesa latitudine alla discrezionalità e all’intervento dei poteri pubblici», che vengono così sottratti a ogni irrinunziabile controllo (45).

L’utilità degli atti alimenta perciò un flusso continuo e arbitrario di interventi del potere pubblico, che è distruttivo della certezza del diritto e dell’uguaglianza dinanzi alla legge: perché maggioranze mutevoli fanno della legislazione uno strumento al servizio di scopi specifici, perseguiti dai gruppi di volta in volta più forti (46). Il processo sociale viene in tal modo alterato, «piegato» a finalità politicamente decise, che impediscono la libera esplorazione dell’ignoto. Si pone in essere un’estesa distribuzione di «favori». E questi, quale che sia la loro «giustificazione» politica, generano aree di «protezione», affievolimento della concorrenza, danno nei confronti delle iniziative più competitive e sprovviste di «copertura» politica, caduta della produttività (47).

Tutto ciò si nutre di un’illusione ottica: «Dal momento che il valore della libertà si basa sulle opportunità che essa fornisce per azioni non previste e impredicibili, raramente siamo in grado di apprezzare che cosa perdiamo in conseguenza di una particolare restrizione di essa. Ogni restrizione, ogni coercizione diversa dall’implementazione di regole generali, ha per scopo il raggiungimento di qualche particolare risultato prevedibile, ma di solito non è noto ciò che essa impedisce. Gli effetti diretti di ogni intervento […] sono chiaramente visibili, ma altrettanto spesso gli effetti remoti e indiretti non saranno noti e quindi verranno trascurati. Noi non saremo mai completamente a conoscenza di tutti i costi resi necessari dal perseguimento di un particolare risultato, reso possibile da tale interferenza» (48).

Hayek mostra così che fra le due tradizioni c’è solo un accordo «meramente verbale». Infatti, per la tradizione evoluzionistica il «valore supremo» è costituito dalla libertà individuale, «intesa come protezione mediante la legge contro ogni forma di coercizione arbitraria», mentre la tradizione costruttivistica si è venuta a identificare con il movimento per la democrazia (49). Ma liberalismo e democrazia non sono la stessa cosa (50). Sono «risposte a due domande del tutto diverse. La democrazia risponde alla vecchia domanda: “Chi deve esercitare il potere pubblico”? E la risposta è: “L’esercizio del potere pubblico spetta ai cittadini nel loro insieme”. Ciò significa che la teoria democratica non si cura di quale debba essere l’ambito di competenza di quel potere» (51). Il che è invece (lo abbiamo già visto) la principale preoccupazione del liberalismo (52). Ecco perché Benjamin Constant ha scritto che «l’astratto riconoscimento della sovranità popolare non incrementa in nulla la libertà dei singoli» (53). E ha aggiunto che, «se attribuiamo alla sovranità un’estensione che essa non deve avere, la libertà può essere persa malgrado quel principio o addirittura per il suo tramite» (54). L’utilità delle regole produce il «governo della legge». L’utilità degli atti, con la discrezionalità che essa permette, ricade nel «governo degli uomini».

Note

(1) La traduzione italiana è apparsa nel 1978, nel terzo volume dell’Enciclopedia del Novecento. Nello stesso anno, il saggio è stato da Hayek incluso nei New Studies in Philosophy, Politics, Economics and the History of Ideas (trad. it. Armando, Roma 1988). Liberalism è stato pubblicato in italiano anche nel 1996 (Ideazione, Roma), separatamente dagli altri saggi.

(2) Com’è noto, l’opera è stata completata con aggiunta di altri due volumi: nel 1976, ha visto la luce The Mirage of Social Justice e, nel 1979, è uscito The Political Order of a Free People. Nel 1982, l’intera opera, rivista e corretta, è stata poi pubblicata in unico volume (trad. it., Legge, legislazione e libertà, il Saggiatore, Milano 1986).

(3) L. Infantino, Individualismo, mercato e storia delle idee, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, p. 307.

(4) Infra, p. 42. Vedi anche L. von Mises, Socialismo, trad. it., Rusconi, Milano 1990, pp. 76-77.

(5) F.A. von Hayek, La società libera, trad. it., Rubbettino, Soveria Mannelli 2007, pp. 162-164. Cfr. pure L. Robbins, La teoria della politica economica nella economia politica classica inglese, trad. it., uTET, Torino 1956, pp. 51-56.

(6) F.A. von Hayek, La società libera, cit., 365.

(7) D. Forbes, “Scientific” Whiggism: Adam Smith and John Millar, in «Cambridge Journal», vol. 7, 1954, pp. 643-70; Id., Sceptical Whiggism, Commerce and Liberty, in A.S. Skinner, T. Wilson (a cura di), Essays on Adam Smith, Clarendon Press, Oxford 1975, pp. 179-201.

(8) Il lettore può trovare la traduzione italiana di tale saggio in F.A. von Hayek, Conoscenza, mercato, pianificazione (a cura di F. Donzelli), il Mulino, Bologna 1988, pp. 227-252. Hayek ha giudicato Economics and Knowledge l’«evento decisivo» della propria biografia intellettuale (Autobiografia, trad. it., Rubbettino, Soveria Mannelli 2011, p. 69).

(9) A. Smith, La ricchezza delle nazioni, trad. it., uTET, Torino 1975, p. 584.

(10) Ivi, p. 852.

(11) L. Infantino, Ignoranza e libertà, Rubbettino, Soveria Mannelli 1999, pp. 130-140.

(12) D. Forbes, Introduction ad A. Ferguson, An Essay on the History of Civil Society, university Press, Edinburgh 1966, p. XXIV.

(13) F.A. von Hayek, Nuovi studi di filosofia, politica, economia e storia delle idee, cit., pp. 271-289. Vedi anche L. Infantino, L’ordine senza piano, Arman- do, Roma 2011 (ristampa della terza edizione), pp. 27-69.

(14) F.A. von Hayek, Individualismo: quello vero e quello falso, trad. it., Rub- bettino, Soveria Mannelli 1997, p. 53.

(15) Ibidem.

(16) D. Hume, Saggi e trattati morali, letterari, politici e economici, trad. it., uTET, Torino 1974, pp. 219-220. Prima di Hume, Mandeville (The Fable of the Bees, Clarendon Press, Oxford 1924, vol. 2, p. 335) aveva scritto: «Non potendo avere il meglio, cerchiamo quel che più gli si avvicini e scopriamo che, fra tutti i possibili mezzi che  assicurino la vita delle nazioni e ciò che esse apprezzano, non c’è, per salvaguardare e rafforzare la loro costituzione, metodo migliore di quello rappresentato da sagge leggi e da forme di amministrazione tali che impediscano al bene pubblico di subire grave detrimento dalla mancanza di conoscenza o di probità da parte dei ministri». Avendo alle spalle Constant, Guizot e Tocqueville, Ortega y Gasset (Notas de vago estío, in Obras completas, Revista de Occidente, Madrid 1946-1983, vol. 2, pp. 424-425) ha perciò giustamente affermato che il liberalismo si preoccupa, indipendentemente da chi lo esercita, di quali debbano essere i limiti del potere pubblico. E, in tempi più vicini a noi, Karl R. Popper (La società aperta e i suoi nemici, trad. it., Armando, Roma 1973-1974, vol. 1, p. 174) ha sostenuto che il vecchio interrogativo «chi deve comandare?» deve essere sostituito dalla domanda: «come possiamo organizzare le istituzioni politiche in modo da impedire che governanti cattivi o incompetenti facciano troppo danno?».

(17) Hayek (La società libera, cit., p. 355, nota 33) ha sottolineato l’importanza della traduzione inglese, dovuta a Ph. Holland, di Ab Urbe condita di Livio, in cui fa apparizione la parola rule nel senso di «governo» o «sovranità» della legge.

(18) F.A. von Hayek, Legge, legislazione e libertà, cit., p. 317, dove Hayek aggiunge: «quando la collaborazione presuppone scopi comuni, coloro che han- no fini diversi saranno necessariamente nemici in lotta per gli stessi mezzi».

(19) A. Smith, La ricchezza delle nazioni, p. 92.

(20) Cfr. L. Infantino, L’ordine senza piano, cit., p. 19; Id., Individualismo, mercato e storia delle idee, cit., p. 311.

(21) B. de Mandeville, The Fable of the Bees, cit., vol. 1, p. 60.

(22) D. Hume, Trattato sulla natura umana, trad. it., Laterza, Roma 1982, vol. 2, p. 561.

(23) C. de Montesquieu, Lo spirito delle leggi, trad. it., uTET, Torino 1965, p. 92.

(24) Cfr. R.L. Schuyler (a cura di), Josiah Tucker, a Selection from his Economic and Political Writings, Columbia u.P., New York 1931, p. 92.

(25) A. Smith, La ricchezza delle nazioni, cit., p. 92.

(26) D’altronde, «se i fenomeni sociali non manifestassero altro ordine all’infuori di quello conferito loro da una intenzionalità cosciente, non ci sarebbe posto per alcuna scienza teorica della società e tutto si ridurrebbe, come
spesso si sente dire, a problemi di psicologia» (F.A. von Hayek, L’abuso della ragione, trad. it., Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, pp. 73-74).

(27) A. de Jasay, Before Resorting to Politics, in C.K. Rowley (a cura di), The Political Economy of the Minimal State, Elgar, Cheltenham 1996, p. 55.

(28) Gli autori di cui stiamo trattando sono stati tutti severi critici del con- trattualismo. Cogliendo tale frattura, Werner Sombart (Die Anfänge der Soziologie, in Hautprobleme der Soziologie. Erinnerunsgabe für Max Weber, München-Leipzig, Duncker und Humblot 1923, p. 9) ha scritto che dobbiamo ricercare i «fondatori della moderna sociologia fra i noti avversari del diritto naturale e soprattutto del contrattualismo». Cfr. pure C. Mongardini, L’epoca della società, Roma, Bulzoni 1970, pp. 77-132; L. Infantino, L’ordine senza piano, cit., pp. 18-22.

(29) F. Pollock, Oxford Lectures and Other Essays, MacMillan, London 1908, p. 42.

(30) Vedi F.A. von Hayek, Studi di filosofia, politica ed economia, trad. it., Rubbettino, Soveria Mannelli 1998, p. 201, nota 21; Id., Nuovi studi di filosofia, politica, economia e storia delle idee, cit., p. 284; Id., Legge, legislazione e libertà, cit., pp. 34-35.

31. F.A. von Hayek, La via della schiavitù, trad. it., Rubbettino, Soveria Man- nelli 2011, p. 139. Hayek ha in tal modo dato estrema chiarezza a quel teorema sociologico, disgiuntamente formulato nel Seicento da James Harrington e François Bernier, stando al quale non ci può essere libertà politica e sviluppo economico senza proprietà privata. Cfr. L. Infantino, Individualismo, mer- cato e storia delle idee, cit., pp. 318-320 e la bibliografia ivi indicata.

(32) Ecco perché Hayek (Legge, legislazione e libertà, cit., p. 236) ha scritto: «È significativo che vi sia uno stretto parallelo tra il considerare le norme di giustizia come proibizioni soggette a un controllo negativo e lo sviluppo moderno della filosofia della scienza, specialmente ad opera di Karl Popper […]. Le posizioni nei due campi sono analoghe anche per il fatto che si può soltanto cercare di avvicinare la verità o la giustizia tramite la continua eliminazione del falso o dell’ingiusto, ma non si può mai essere sicuri di averle raggiunte». Sulla giustizia come «virtù negativa, che impedisce di danneggiare il prossimo», vedi inoltre il classico brano di Smith (Teoria dei sentimenti morali, trad. it., Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1991, p. 109).

(33) F.A. von Hayek, Nuovi studi di filosofia, politica, economia e storia delle idee, cit., pp. 197-208. La libertà individuale di scelta è quindi «essenziale per far posto all’imprevedibile e all’impredicibile» (F.A. von Hayek, La società libera, trad. it., Rubbettino, Soveria Mannelli 2007, p. 109). Per una più estesa trattazione, rinvio a L. Infantino, Individualismo, mercato e storia delle idee, cit., pp. 259-264.

(34) F.A. von Hayek, Legge, legislazione e libertà, cit., p. 323.

(35) Vedi infra, p. 24.

(36) J. Ortega y Gasset, La rebelión de las masas, in Obras completas, cit., vol. 4, p. 118.

(37) L’espressione «secrezione spontanea» è di Ortega y Gasset (ibidem). Non c’è quindi un inizio della società. E, poiché l’uomo è a nativitate un essere sociale, cade ogni ipotesi contrattualistica. Sull’argomento, Hayek (Legge, legislazione e libertà, cit., 94, nota 3) fa specifico riferimento a Hume, Ferguson e Menger. Ma vanno parimenti inclusi Mandeville e tutti quanti i moralisti scozzesi.

(38) Vedi anche G. Simmel, La filosofia del denaro, trad. it., uTET, Torino 1984, p. 258.

(39) F.A. von Hayek, Legge, legislazione e libertà, cit., p. 95. Ortega y Gasset (La rebelión de las masas, cit., p. 118) ha giustamente osservato: «Pretendere che il diritto regga le relazioni fra esseri che previamente non vivono in effettiva società mi sembra – e mi si perdoni l’insolenza – avere un’idea abbastanza confusa e ridicola di ciò che è il diritto». Da parte sua, Popper (La società aperta e i suoi nemici, cit., vol. 2, p. 124) ha precisato: ogni forma di psicologismo è
«costretto, volente o nolente, a operare con l’idea di un inizio della società e con l’idea di una natura umana e di una psicologia umana quali esisterebbero anteriormente alla società [… il che] non è soltanto un mito storico, ma anche per così dire un mito metodologico. Esso non può neppure essere seriamente preso in considerazione, perché abbiamo buone ragioni per credere che l’uomo o, meglio, il suo antenato fu sociale prima di essere umano».

(40) F.A. von Hayek, Legge, legislazione e libertà, cit., p. 121.

(41) D. Hume, Trattato sulla natura umana, cit., vol. 2, p. 570. 42. Ivi, p. 525.

(43) D. Stewart, The Philosophy of the Active and Moral Powers of Man, Phillips, Sampson & Co., Boston 1859, p. 184.

(44) Ibidem.

(45) Ibidem.

(46) È questo un tema su cui, accanto all’opera di Hayek, bisogna rammentare quella di Bruno Leoni (La libertà e la legge, trad. it., Liberilibri, Macerata 1994).

(47) A «copertura» di ciò, si utilizza sovente l’idea della «giustizia sociale». Si consegue comunque il risultato di conferire al potere pubblico il rango di va- riabile indipendente. Raimondo Cubeddu (Atlante del liberalismo, Ideazione, Roma 1997, p. 79) ha opportunamente scritto: «Dal punto di vista […della tradizione a cui Hayek si è rifatto], è senza dubbio paradossale attribuire un carattere etico allo Stato e considerarlo come il portatore di un’“etica pubblica” superiore e diversa da quella degli individui. Anche perché, in questo caso, esso sarebbe difficilmente distinguibile dal vituperato “Stato etico” di derivazione hegeliana, che è tra le componenti delle ideologie totalitarie». Lo strumento più insidioso utilizzato dal potere pubblico per manomettere il processo sociale è costituito dal monopolio dell’emissione monetaria. Menger, Mises e Hayek non si sono mai stancati di ripeterlo. È un tema su cui, date le dimensioni di questa prefazione, non è possibile soffermarsi. Per un’estesa trattazione, rinvio a G.A. Selgin, The Theory of Free Banking: Money Supply under Competition Note Issue, Rowman & Littlefield, Laham 1988.

(48) F.A. von Hayek, Legge, legislazione e libertà, cit., p. 75.

(49) Infra, p. 25.

(50) F.A. von Hayek, La società libera, cit., p. 237, nota 2.

(51) J. Ortega y Gasset, Notas de vago estío, cit., pp. 424-425. Vedi anche La rebelíon de las masas, cit., pp. 191-192.

(52) Vedi nota 16 e il testo sovrastante.

(53) B. Constant, Principes de politique, in Cours de politique constitutionelle, Librairie de Guillaumin 1872, vol. 1, p. 9.

(54) Ibidem.