Pubblichiamo il testo integrale della relazione tenuta dal Prof. Lorenzo Infantino, presidente della Fondazione Hayek Italia, nel corso della manifestazione inricordo di Sergio Ricossa, organizzata mercoledì 20 aprile 2016, a Roma, dalla Fondazione Einaudi

di Lorenzo Infantino

Sergio Ricossa occupa un posto di grande rilievo nell’albero genealogico della cultura liberale italiana. Egli si colloca dopo Luigi Einaudi e Bruno Leoni. È colui che ha fatto da punto di riferimento a tutta una generazione, cresciuta in una fase della vita sociale in cui ogni cosa sembrava negare l’idea della libertà individuale di scelta. Erano anni in cui non si parlava più di limitazione del potere. Si aspirava invece al «governo onnipotente», che avrebbe riplasmato la condizione umana e ci avrebbe affrancato dalla scarsità e da ogni «problema maledetto». Dominava un semplicismo dogmatico, totalmente chiuso alla possibilità di comprendere che già il solo mantenimento della civiltà è un compito «superlativamente complesso» [1]. E Ricossa, che con la sua parola e con i suoi scritti si è sempre soffermato sui paradossi etici, ha cioè giudicato le azioni dalle loro conseguenze e non dai propositi dichiarati dagli attori, è stato visto come un «rottame accademico».

Sappiamo come poi sono andate le vicende storiche. E conosciamo l’insincera corsa di molti a dichiararsi liberali. È stato un capovolgimento repentino e, in alcuni casi, addirittura sconcertante. Ricossa lo ha commentato nei seguenti termini: «Confesso di sentire un certo fastidio quando mi accorgo che ex avversari, i quali nemmeno mi parlavano (salvo gli insulti) […] adesso mi parlano, sono sulle mie posizioni o, addirittura, mi hanno scavalcato […]. Mi parlano per farmi la morale, per spiegarmi ciò che io sostenevo vent’anni prima di loro, per dirmi che sono sempre loro ad aver ragione, anche se sostengono l’esatto opposto di quanto sostenevano […]. Mai nessuno di costoro ha ammesso: “Mi sono sbagliato”. Al contrario, si rivolgono a me come fossi io l’errante e, con l’aria di aver fatto una grande scoperta, mi insegnano solennemente che, per esempio,  l’economia» non può funzionare senza mercato [2].

La scelta liberale di Ricossa risale agli anni della sua adolescenza. Come egli stesso ha ricordato, «a scuola non si sceglie la materia preferita, si sceglie il docente preferito» [3].  E Ricossa, avendo scelto un liberale, il professor Francesco Palazzi, è divenuto anche lui liberale. Ha conseguito poi la laurea in Economia, sotto la guida di Augusto Bordin, nella sua Torino. E in quella università ha percorso tutta la sua carriera accademica: da assistente volontario fino alla titolarità della cattedra di economia, conseguita dopo essere stato “ternato” assieme a Venerio Del Punta e Luigi Spaventa.

La prima formazione economica di Ricossa si è svolta all’insegna della teoria dell’equilibrio economico generale. Il paretiano de Pietri-Tonelli aveva fortemente influenzato Bordin; e Bordin ha influenzato l’allievo Ricossa. Ma quella teoria era stata per Pareto una sorta di camicia di Nesso [4]. E presto lo è divenuta anche per lo stesso Ricossa.

Bruno Leoni si era già attivamente impegnato nella Mont Pélerin Society, l’associazione di studiosi liberali fondata da Friedrich A. von Hayek nel 1947. A quell’impegno Leoni aveva associato la costituzione a Torino del Centro di Studi Metodologici. Si proponeva di immettere nella cultura italiana un solido coefficiente di liberalismo e cercava di aggregare nuove energie al suo progetto. Ha così portato Ricossa alla Mont Pélerin Society e l’ha coinvolto nell’organizzazione di due convegni, tenutisi rispettivamente a Torino nel 1961 e a Stresa nel 1965. Il convegno di Torino ha visto l’ultima apparizione pubblica di Luigi Einaudi [5].

  1. IL TEORICO DEL DISEQUILIBRIO

L’ingresso nella Mont Pélerin Society ha consentito a Ricossa di dare al suo liberalismo un orizzonte molto più vasto. Ancora nel 1965, egli ha promosso il conferimento della laurea honoris causa a Jan Tinbergen. Ma lentamente il suo profilo intellettuale è cambiato. Ha abbandonato l’intero continente utilitaristico. Ha così voltato le spalle alla teoria dell’equilibrio economico generale ed è divenuto un teorico del disequilibrio.

C’è qui una non trascurabile questione. Siamo abituati a parlare di “economia classica” e di “economia neoclassica”, perché l’affermazione del marginalismo ha determinato un cambiamento di paradigma fra due periodi della storia del pensiero economico. Ma queste espressioni c’impediscono di vedere una diversa e più profonda frattura: quella che all’interno dell’economia classica e dell’economia neoclassica separa gli evoluzionisti dagli utilitaristi propriamente detti.  Bernard de Mandeville, David Hume e Adam Smith sono stati dei «darwiniani prima di Darwin» [6]; Jeremy Bentham e i due Mill sono stati degli utilitaristi in senso stretto. Carl Menger, fondatore della Scuola austriaca di economia, è stato un evoluzionista; William S. Jevons e Léon Walras (il padre della teoria dell’equilibrio economico generale) sono stati dei meri utilitaristi.

Qual è il punto? Gli evoluzionisti vedono nell’uomo un essere ignorante e fallibile, che deve indefettibilmente misurarsi con la scarsità delle risorse a sua disposizione; gli utilitaristi in senso stretto ritengono che la dimensione economica della vita sia rappresentata dal «desiderio di ricchezza» e credono che l’attore, se non propriamente onnisciente, sia in possesso dei “dati rilevanti”. I primi si affidano perciò al processo sociale, che ha carattere ateleologico, per mobilitare le limitate risorse e le loro parziali e fallibili conoscenze; i secondi sanno già a quale risultato giungere. Gli evoluzionisti affermano l’utilità delle regole, che sono l’habitat della cooperazione sociale volontaria; gli altri invocano l’utilità degli atti, che è sempre giudicata in maniera discrezionale, in base alle convenienze del momento. Gli uni sono saldamente legati al “governo della legge” e alla limitazione della sfera d’intervento del potere pubblico; gli utilitaristi si consegnano inevitabilmente al “governo degli uomini” e aprono le porte alla «democrazia illimitata». Gli evoluzionisti sanno che le azioni producono una “cascata” di conseguenze ininintenzionali e vedono nelle scienze sociali il mezzo attraverso cui gettare luce su di esse; gli altri operano attraverso una forma di psicologismo, in cui le intenzioni conducono al risultato voluto.

Se si tiene conto di tutto ciò, parlare di “economia classica” e di “economia neoclassica” è fuorviante o, perlomeno, insufficiente. È vero che tale distinzione serve a richiamare l’attenzione su un cambiamento di paradigma, sulla diversa teoria del valore a cui l’una e dell’altra ricorrono. Volendo tuttavia guardare le cose da una più ampia prospettiva, ci si rende conto che la teoria soggettivistica del valore fornisce all’approccio evoluzionistico il suo chiaro presupposto, mentre quella stessa teoria viene svuotata di ogni sua fecondità dall’utilitarismo in senso stretto, che rinunzia alla creatività dell’attore e all’incertezza degli esiti. Non meraviglia pertanto che Carl Menger e Eugen von Böhm-Bawerk si siano esplicitamente sentiti estranei all’idea dell’equilibrio economico generale. E non sorprende che Ludwig von Mises abbia chiarito che ciò che manca nello schema walrasiano è esattamente l’azione umana. Da parte sua, Friedrich A. von Hayek ha spiegato che l’equilibrio economico generale poggia sull’assunto che tutti sappiano tutto o che almeno posseggano i “dati rilevanti”. Di qui la conseguenza che ognuno sa esattamente che cosa può fare o non fare sul mercato. L’equilibrio è quindi presupposto, non ha bisogno di essere realizzato [7]. E ciò significa che gli schemi di quella teoria sono un mero esercizio di logica, da cui è estromessa la situazione problematica, cioè a dire il processo di aggiustamento dei piani individuali. Non sorprende allora che lo stesso Hayek abbia visto nell’utilitarismo in senso stretto un «individualismo falso» e abbia additato l’homo oeconomicus come la «vergogna» della famiglia degli economisti [8].

Ricossa ha espresso sull’utilitarismo un giudizio netto. Ha correttamente individuato nella scarsità e non nel «desiderio di ricchezza» l’origine della dimensione economica dell’azione [9]. Ha  severamente criticato il «calcolo felicifico» di Bentham, di colui cioè che si è piccato di «ottenere il bene comune massimizzando la somma algebrica dei piaceri e dei dolori» dei singoli e che ha condannato la schiavitù «semplicemente perché gli schiavi che soffrivano erano più numerosi dei padroni che ne traevano utilità» [10]. Ovviamente, Ricossa non ha mancato di rilevare che l’applicazione del principio utilitaristico «implica che le utilità individuali siano appunto misurabili e sommabili insieme; implica dei confronti interpersonali di utilità […]; implica che un provvedimento sia accettabile se, sempre in termini di utilità individuali, favorisce qualcuno più di quanto danneggi qualcun altro […, sicché è] ritenuto morale il patimento inflitto a [… certi soggetti] quando di conseguenza tocchi una grande felicità a molti altri» [11].

Ricossa ha ancora precisato: «da Bentham in poi, i sedicenti padroni della Ragione e della Logica [… sono stati inclini a insegnare] come “massimizzare” ciò che piace [… e] “minimizzare” ciò che non piace» [12]. Tuttavia, se manca una gerarchia obbligatoria di fini (e tale assenza è il connotato di base di una società libera), «non si può parlare di “ottimo”, perché la situazione rimane aperta a ritocchi continui, che ognuno è libero di apportare [… e che consentono] di esplorare un territorio ignoto» [13]. Il che «condanna» gli stessi schemi dell’equilibrio economico generale [14], a proposito dei quali Ricossa ha affermato: «nei tipici modelli di equilibrio generale, i prezzi sono inizialmente incogniti. [E] la teoria serve appunto a calcolare quei prezzi occorrenti affinché si realizzi l’armonia degli equilibri individuali nell’equilibrio generale […, sicché] la condizione finale ottima (ottimo paretiano) è in effetti prestabilita: si sa già dove si vuole arrivare. Il razionalismo è teleologico, la ragione sa a priori quale è l’ottimo, e si tratta di indurre gli individui massimizzanti a dirigervisi simultaneamente» [15].

Malgrado i suoi esordi paretiani, Ricossa ha perciò rigettato l’idea della “massimizzazione”. Nelle nostre conversazioni private, soleva fare riferimento al seguente brano di Hayek: «al pari degli esperimenti scientifici», l’allocazione competitiva delle risorse è, «prima di tutto ed essenzialmente, un processo di scoperta [… E] non si può dire della concorrenza, come di nessun altro tipo di esperimento, che essa porti a una massimizzazione di un qualche risultato misurabile. Semplicemente, essa porta, in condizioni favorevoli, all’uso di maggiori capacità e conoscenze di qualsiasi altra procedura» [16]. Pertanto, non c’è alcuna “ottimizzazione”. La condizione di scarsità è una permanente situazione di disequilibrio, che pone in essere un processo ateleologico.

Riconoscere ciò equivale ad accettare la nostra «imperfezione». Il che ha consentito a Ricossa di aprire un più esteso fronte dì attacco e di colpire «ogni schema di salvezza totale». È stato forse questo il momento più elevato della sua riflessione, quello in cui egli ha lucidamente mostrato il legame che unisce l’idea di perfezione sociale alla credenza di un male che ostacola il raggiungimento di tale perfezione e alla presunzione di conoscere il «rimedio definitivo» a tutti i “problemi maledetti” della condizione umana [17]. Ci sono qui le cause gnoseologiche del totalitarismo.

  1. LIBERALISMO E LIBERISMO

Ricossa amava definirsi “liberista”. E alcuni commentatori lo hanno ricordato come un “liberale liberista”. Sembra che in queste due definizioni ci sia accordo. Ma non è così. Ricossa si definiva “liberista” per porre in evidenza l’impossibilità di escludere la libertà economica dalle condizioni che rendono possibile o impossibile la libertà individuale di scelta. Anche i commentatori hanno posto l’accento sul suo “liberismo”. Ma lo hanno fatto con lo scopo di annoverarlo fra quei particolari liberali che pretendono, oltre alla libertà politica e culturale, la libertà economica. L’interrogativo è allora d’obbligo: è possibile la libertà individuale di scelta senza la libertà economica?

Se nel nostro Paese non si fosse affermata l’illusione crociana, secondo cui «l’idea di libertà può avere un legame contingente e transitorio, ma non ha nessun legame necessario e perpetuo con la proprietà della terra e delle industrie», un simile interrogativo sarebbe del tutto improponibile [18]. E tale lo ha giudicato Ricossa, che ha attribuito a Benedetto Croce la responsabilità di una cultura «incapace» di darsi conto della funzione svolta dalla libertà economica [19].

Com’è noto, Luigi Einaudi si è ripetutamente contrapposto a Croce. Utilizzando nulla più che il buon senso, ha insistito sull’impossibilità di avere la libertà individuale di scelta senza la libertà economica. Avrebbe potuto rammentare che già nel Seicento James Harrington e François Bernier avevano richiamato l’attenzione sulle conseguenze derivanti dalla soppressione della proprietà privata. E avrebbe potuto attingere argomenti anche dai «nemici della società aperta»: perché costoro, da Platone in poi, si sono sempre proposti come primo obiettivo l’abolizione o il minuzioso controllo della proprietà privata, che è per l’appunto la base dell’autonomia economica e della libertà di scelta. Il fatto è che, per conseguire i nostri fini (siano essi materiali o ideali), abbiamo bisogno di disporre di risorse. Se viene meno tale disponibilità, «ogni possibilità di pensare, di parlare e di operare» in modo difforme da quanto stabilito dai detentori del potere politico diviene una pura illusione [20].

Stando così le cose, non può esistere un liberalismo privo della libertà economica. Molti pensano però esattamente il contrario. Il che avviene sicuramente perché sulla nostra cultura pesa ancora l’ipoteca crociana. Ma, più in generale,  per la ragione che ˗ lo ha scritto Joseph A. Schumpeter ˗ «come elogio supremo, sia pure involontario, i nemici del sistema dell’iniziativa privata hanno ritenuto opportuno appropriarsi della sua insegna», hanno cioè voluto dichiararsi liberali [21]. E ciò fornisce uno spazio a coloro che, pur non volendo formalmente abolire la proprietà privata, ritengono che la nobiltà e la virtù della politica debbano prevalere sulla prosaica attività economica; a quanti credono che il mercato debba essere “controllato”; a quelli che presumono di possedere una conoscenza superiore a quella resa disponibile dal libero processo di esplorazione dell’ignoto e di correzione degli errori; e che pensano che la  cooperazione sociale volontaria debba essere “guidata” dalle loro menti illuminate, alle quali soltanto è dato conoscere l’interesse pubblico. Il che in realtà è poi il conseguimento “protetto” dei propri interessi e di quelli dei gruppi contigui.

C’è qui un grosso fraintendimento. La parola “mercato” è uno «stenogramma», che sinteticamente indica l’attività di tutti coloro che cooperano volontariamente. Per Ricossa, il mercato siamo noi, nel momento in cui ci scambiamo reciprocamente beni e servizi. È vero: gli esiti prodotti dalla libera cooperazione sociale possono non piacerci. Ma controllare il mercato significa manomettere la libertà individuale di scelta. È coerente? Dobbiamo porci degli altri interrogativi.

Se il processo democratico consegna il potere alla parte politica che non riceve il nostro consenso, dobbiamo intervenire per correggere tale risultato? Dobbiamo sottoporre a controllo la democrazia? Se non facciamo ciò nei confronti del processo democratico, dove la minoranza subisce le decisioni della maggioranza, non si comprende perché dobbiamo farlo nel caso del mercato, dove le decisioni degli altri non impediscono ad alcuno di esercitare in modo diverso la propria libertà di scelta. È questo un punto su cui Ricossa si è trovato d’accordo con Ludwig von Mises e Bruno Leoni [22].

E non solo. Impedire che il processo di esplorazione dell’ignoto e di correzione degli errori si svolga liberamente significa condannare il proprio Paese al declino. A Ricossa non è ovviamente sfuggito che il “controllo” del mercato «all’interno di una singola società» comporta la caduta della produttività e del prodotto [23]. E non è sfuggito che l’interventismo alimenta una corsa ai privilegi. Il che costituisce una vera e propria aggressione al “governo della legge”, perché coincide con l’allocazione politica o, per meglio dire, clientelare delle risorse. Si crea in tal modo l’habitat dentro cui si rende più facilmente possibile l’attività del demagogo e dell’avventuriero. E bisogna subire i connessi fenomeni degenerativi della vita pubblica.

Aristotele aveva una conoscenza molto limitata dei fenomeni economici [24]. Ma ciò non gli ha impedito di comprendere che la «politica e l’economia sono due scienze necessariamente distinte», per la ragione che le «figure del politikós e dell’oikonomikós, del politico e dell’amministratore della casa, sono altrettanto necessariamente distinte» [25]. Come dire che lo Stato è, e si definisce, “politico” perché non è “economico”; è distinto «dalla “casa” e dalla sua “amministrazione”, ovvero dall’economia in quanto tale» [26]. Non a caso lo stesso Aristotele ha affermato che «è un uso linguistico non appropriato quello di coloro che credono di poter stabilire l’identità tra il governante […] e il proprietario, ritenendo che le loro differenze si basino solo sul maggior o minor numero di persone alle quali sono preposti e non sulla specificazione delle loro funzioni» [27]. Aristotele temeva che la pólis si potesse trasformare in oikía, in un grande meccanismo di allocazione politico-clientelare delle risorse. In tale situazione, «si regola tutto con decreti […, ma] nessun decreto è universale» [28]. Ossia: dal “governo della legge” si passa al “governo degli uomini”. E la legislazione, come hanno sottolineato Hayek e Leoni, prende il sopravvento sul diritto. È il regno degli «avventurieri», che non vivono dei servizi resi in forma competitiva ai consumatori, ma di privilegi e di prede [29]. Non badano alle conseguenze di medio e lungo periodo. L’unica loro preoccupazione è trarre immediato vantaggio dal connubio fra politica ed economia. Il che cancella ogni forma di limitazione del potere pubblico, restringe sempre più la sfera dell’autonomia individuale e colpisce irreparabilmente il nostro benessere.

  1. L’IMPEGNO CIVILE

Ricossa ha svolto una vasta attività pubblicistica. L’ingresso nella Mont Pèlerin Society gli ha consentito di acquisire una teoria della libertà di respiro internazionale, che ha cercato in tutti i modi di divulgare e di opporre alla montante marea di “condanne” rivolte alla società di mercato. È in tale prospettiva che si deve vedere il lavoro che egli ha dedicato alla decifrazione di Produzione di merci a mezzo di merci, l’opera pubblicata da Piero Sraffa nel 1960, con l’ambizioso intento di essere una «critica della teoria economica». Quella che Ricossa ha chiamato la «sraffamania» è durata circa vent’anni [30]. Chi con una diversa formazione è entrato in quel periodo all’Università sa quanto ossessivi e deludenti si siano mostrati alcuni corsi di economia. Al che si è aggiunto il dominio del luogo comune. Studiosi di altre discipline, ignari di qualunque teorema economico, si sono comportati come gusci portati dalla corrente. E, con grave irresponsabilità intellettuale, hanno premurosamente individuato in Produzione di merci a mezzo di merci la pietra tombale dell’intera teoria economica “borghese”.

Ricossa è stato lo studioso a cui molti di noi hanno guardato per avere una risposta e un diverso orientamento culturale. Ed egli non ha mancato di caricare sulle proprie spalle la questione sraffiana.  Si è dedicato per cinque lunghi anni al problema [31]. E ha constatato che nello schema di Sraffa ci sono tante equazioni quante sono le merci. «Ma le incognite sono di più, perché sono incogniti tanti prezzi quante sono le merci, più il prezzo del lavoro o salario, e più il tasso di profitto [… ]. Essendoci meno equazioni […] che variabili incognite, esistono dei gradi di libertà, che gli sraffiani [… hanno presentato] come aperti alla contrattazione sindacale» [32]. Di qui l’idea del salario come variabile indipendente. E Ricossa ha annotato: «forse [… i sindacalisti] non avevano letto Sraffa, ma ne avevano assimilato in  qualche modo l’insegnamento» [33]. L’interrogativo che qui bisogna allora porsi è il seguente: tutto ciò significa che l’economia di mercato sia indeterminata? Nient’affatto. Significa solamente che lo sono gli schemi sraffiani.

Le critiche rivolte da Ricossa all’opera di Sraffa si possono considerare come degli strumenti tramite cui sottrarsi al dominio di una “bolla” mediatico-culturale. Sono una manifestazione di quell’impegno civile che ha pure portato lo stesso Ricossa a partecipare alla «marcia contro il fisco», tenutasi nel 1987 a Torino e che ha mobilitato quasi quarantamila persone. Bisogna poi aggiungere i numerosi saggi e la quantità sterminata di  editoriali, elzeviri, recensioni, mediante cui egli ha instancabilmente divulgato i princìpi del liberalismo e ha commentato senza sudditanze le vicende economico-politiche della vita italiana. Non ha mai giustificato le nefandezze di alcuno o accarezzato i “vizi” della classe dirigente. Le sue riflessioni, si pensi soprattutto a quelle contenute in Come si manda in rovina un Paese, costituiscono una dissacrante controstoria. Sono l’individuazione di errori ripetuti con ostinata monotonia, la spiegazione di un disastro in cui non c’è l’elevatezza umana venuta a fallimento. Gli attori non hanno il temperamento dei protagonisti del dramma. Privi di un minimo senso di responsabilità verso il proprio compito, sono farsescamente mossi da luoghi comuni e da interessi ridicoli rispetto alla posta in gioco. E tutto, senza che essi se ne rendano conto, scivola lentamente in una tragedia senza qualità, fatta di gozzoviglia finanziaria, regresso economico e mancanza di futuro per le nuove generazioni.

Negli scritti di Ricossa, c’è la vasta cultura di uno studioso che non si è mai rinserrato dentro le strette frontiere della propria disciplina. C’è l’ironia di cui sono capaci le menti acute. E c’è un’ineguagliabile capacità di scrittura. Tullio De Mauro ha affermato che Ricossa appartiene alla schiera degli «autentici scrittori», all’«alta letteratura» [34]. Indro Montanelli ha paragonato la prosa ricossiana a quella di Montaigne, Voltaire, Renard [35]. Più appropriato mi sembra il paragone con il Tocqueville dei Souvenirs, con il liberale capace di presentare gli avvenimenti del ’48 francese come la «parodia» di altre più autentiche vicende, come una «cattiva tragedia» recitata da «istrioni di provincia» [36].

Come tutti i veri docenti, Ricossa ha saputo dare ai suoi allievi. Ha dato anche a coloro che non hanno potuto seguire i suoi corsi. Fra questi, mi trovo anch’io. Appartengo alla generazione che ha avuto da lui un orientamento culturale e una spinta ad andare avanti. E tutti noi lo abbiamo percepito come quel maestro di liberalismo di cui tante facoltà universitarie erano prive. Ecco perché si può dire nei suoi confronti quel che egli ha scritto a proposito del grande Ludwig von Mises: «è stato il garante della speranza che di fatale vi è nulla e che la libertà ha un futuro» [37].

Ricossa è stato accademico dei Lincei. E tuttavia, com’è facilmente comprensibile, coloro che hanno vestito i paramenti del potere pubblico non hanno riservato al suo lavoro alcun riconoscimento. È pure probabile che, se ciò fosse stato fatto, egli se ne sarebbe sottratto. Ricossa ha identificato la libertà individuale di scelta con l’unica condizione umana meritevole di essere vissuta. Il liberalismo è stato perciò la sua vita, e non uno strumento mediante cui mettere le distante fra sé e gli altri. Sapeva bene in che cosa consiste il ridicolo. Lo ha impeccabilmente rilevato in boriosi e vuoti figuri che occupano l’Università e in  scadenti personaggi del suo tempo. E ha vissuto in un altro territorio. Si è speso nell’esercizio della ragione critica: una funzione scomoda, che non piace a molti, ma di cui abbiamo bisogno per svegliarci dal «sonno dogmatico» della stagnazione e del declino.


Note:

[1] Utilizzo un’espressione di J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, trad. it., Il Mulino, Bologna 1962, p. 62.

[2] Le parole di Ricossa sono tratte da una conferenza tenuta presso il CIDAS di Torino il 23 aprile 1991. Il testo è  raccolto in S. Ricossa, Vivere è scegliere. Scritti di libertà, Fondazione Achille e Giulia Boroli, Milano, 2005, pp.  71-75.

[3] S. Ricossa, Come si manda in rovina un Paese, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012, p. 19.

[4] Per un’ampia trattazione di tale problema, vedi L. Infantino, Potere. La dimensione politica dell’azione umana, Rubbettino, Soveria Mannelli 2013, pp. 211-248.

[5] Maggiori notizie sul proprio percorso culturale vengono fornite dallo stesso Ricossa in una intervista raccolta da E. Colombatto e R. Cubeddu: «Economia: scienza inesistente? Conversazione autobiografica con Sergio Ricossa», in Il pensiero economico italiano, 2001, vol. 9, pp. 187-199. Vedi anche A. Mingardi, Introduzione a E. Colombatto, A. Mingardi (a cura di), Il coraggio della libertà. Saggi in onore di Sergio Ricossa, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002, pp. 12-53.

[6] Utilizzo qui un’espressione di Sir Frederick Pollock (Oxford Lectures and Other Essays, MacMillan, London 1908, p. 42).

[7] F.A. von Hayek, Economia e conoscenza, trad. it., in Conoscenza, mercato, pianificazione, Il Mulino, Bologna 1988, 240-241.

[8] Vedi F.A. von Hayek, Individualismo: quello vero e quello falso, trad. it., Rubbettino, Soveria Mannelli 1997; Id., Economia e conoscenza, cit., p. 241

[9] S. Ricossa, La fine dell’economia. Saggio sulla perfezione, Sugarco, Milano 1986. IL volume è stato ristampato da Rubbettino-Leonardo Facco, Soveria Mannelli, 2006.

[10] S. Ricossa, Maledetti economisti, cit., p. 65.

[11] S. Ricossa, Cento trame di classici dell’economia, Rizzoli, Milano 1991, pp. 58-59.

[12] Ibidem.

[13] S. Ricossa, Impariamo l’economia, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012, p. 160 (pubblicato originariamente nel 1994).

[14] Ivi, p. 176.

[15] S. Ricossa, «Sugli abusi del razionalismo nell’economia politica», in Politica Economica, 1988, vol. 78, pp. 11-12.

[16] F.A. von Hayek, Legge, legislazione e libertà, trad. it., Il Saggiatore, Milano 1986, pp. 442-443.

[17] S. Ricossa, La fine dell’economia. Saggio sulla perfezione, cit., p. 69.

[18] B. Croce – L. Einaudi, Liberismo e liberalismo, Ricciardi, Milano-Napoli 1988, p. 134.

[19] S. Ricossa, Come si manda in rovina un Paese, cit., p. 40.

[20] Quanto riportato fra virgolette è di Luigi Einaudi (B. Croce – L. Einaudi, Liberismo e liberalismo, cit., p. 139. Vedi anche F.A. von Hayek, La via della schiavitù, trad. it., Rubbettino, Soveria Mannelli 2011, p. 139; L. von Mises, L’azione umana, Rubbettino, Soveria Mannelli 2016, p. 337.

[21] J.A. Schumpeter, Storia dell’analisi economica, trad. it., Bollati Boringhieri, Torino 1990, vol. 2, p. 481.

[22] L. von Mises (L’azione umana, cit., p. 322. Raccogliendo la lezione di Mises, Bruno Leoni (Lezioni di dottrina dello Stato, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004, p. 231) ha scritto che nel mercato «l’individuo non si trova mai nella condizione di membro di una minoranza dissenziente».

[23] S. Ricossa, Passato e futuro del capitalismo, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 68.

[24] Vedi J.A. Schumpeter, Storia dell’analisi economica, cit., vol. 1, p. 75; K. Polanyi, Aristotele scopre l’economia, in K. Polanyi (a cura di), Traffici e mercati negli antichi imperi, trad. it., Einaudi, Torino 1978, pp. 75-113; S. Ricossa, «Sul consumismo», in Biblioteca della libertà, 1988, vol. 23, pp. 7-19.

[25] D. Sternberger, Le tre radici della politica, trad. it., Il Mulino, Bologna 2001, p. 311.

[26] Ibidem.

[27] Aristotele, Politica, in Politica e Costituzione di Atene, Utet, Torino 1992, 1252a.

[28] Ivi, 1292a.

[29] M. Weber, Osservazioni preliminari, trad. it., in Sociologia delle religioni, Utet, Torino 1976, vol. 1, p. 96.

[30] S. Ricossa, Come si manda in rovina un Paese, cit., p. 169.

[31] S. Ricossa, «Gli equivoci degli sraffiani», in Politica Economica, 1979, vol. 69, pp. 127-140; Id., Teoria unificata del valore economico, Giappichelli, Torino 1981. Nella suo diario, Ricossa ha annotato: «consuntivo della confutazione di Sraffa. Tiratura 500 copie; vendute 146; incasso per diritti d’autore 140.000 lire. Cinque anni di lavoro. Grazie, Sraffa?» (Come si manda in rovina un Paese, cit., p. 169).

[32] S. Ricossa, Cento trame di classici dell’economia, Rizzoli, Milano 1991, p. 261.

[33] Ibidem.

[34] T. De Mauro, Nota linguistica aggiuntiva, in R. Bocciarelli, P. Ciocca (cura di), Scrittori italiani di economia, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 422.

[35] I. Montanelli, Presentazione a S. Ricossa, Scrivi che ti passa, Fògola, Torino 1999, p. 8.

[36] A. de Tocqueville, Ricordi, trad. it., in Scritti politici, Utet, Torino 1969, vol. 1, pp. 344 e 410.

[37] S. Ricossa, Prefazione, a L. von Mises, Problemi epistemologici dell’economia, Armando, Roma 1988, p. 12.