di Lorenzo Infantino da “Il Foglio” del 29 giugno 2016

È probabile che molti non abbiano vissuto come una sorpresa il risultato del referendum tenutosi nel Regno Unito, perché in effetti la diffidenza sempre mostrata da una parte degli inglesi nei confronti del progetto europeista lasciava forse prevedere l’esito della recente consultazione referendaria. Il governo di Londra si è rifiutato di partecipare ai lavori che avrebbero condotto al Trattato di Roma del 1957; e si è poi (1959) associato ad altri paesi, per dare vita all’EFTA. L’adesione al progetto europeista è avvenuta solamente negli anni Settanta. Ed è stata sempre caratterizzata da molte “fruttuose” riserve, che hanno consentito alla corona britannica di occupare in seno all’Unione Europea una posizione privilegiata.

Tutto ciò non cancella però il fatto che nella prima metà del Novecento l’Inghilterra ha avuto un suo movimento federalista (si pensi a Lord Lothian o a Lionel Robbins), a cui si sono ispirati numerosi europei. Il che lascia pensare che nel voto a favore della Brexit si possa trovare, accanto a un irragionevole “isolazionismo”, una motivata critica al modo in cui le istituzioni europee sono state organizzate e ai compiti che sono stati a esse affidati.

Il federalismo di Einaudi

Montesquieu affermava che l’Europa è “composta da molte province” e che le “cose sono combinate in modo tale che tutti gli stati dipendano gli uni dagli altri”. Voltaire vedeva nell’Europa una “grande repubblica divisa in vari stati, gli uni monarchici, gli altri misti, gli uni aristocratici, gli altri popolari, ma tutti collegati gli uni con gli altri, tutti con uguale fondamento religioso, anche se divisi in varie sette, tutti con gli stessi princìpi di diritto pubblico e di politica, sconosciuti nelle altre parti del mondo”. E Guizot, nella sua bella “Histoire de la civilisation en Europe”, ha scritto che “l’impossibilità di escludersi a vicenda” ha imposto che “princìpi diversi vivessero insieme” e che giungessero a una sorta di “transazione”; il che ha fatto dell’Europa moderna la “madre della libertà”.

Molti hanno poi ritenuto che il problema fosse analogo a quello che, all’indomani della Dichiarazione d’Indipendenza, hanno dovuto affrontare le tredici colonie americane che si erano ribellate all’Inghilterra e che, in un primo momento, avevano aderito a un’unione formata da “stati sovrani”. La loro rivalità e i loro conflitti economici e territoriali, le loro piccole gelosie rendevano però estremamente ardua, se non impossibile, l’attività del governo centrale. E ciò, secondo Alexander Hamilton, avrebbe condotto alla “rovina” la Confederazione. Di qui la necessità di una nuova costituzione, il cui testo è stato il prodotto della Convenzione di Filadelfia (1787). È nato così qualcosa di non programmato, che ha limitato l’autonomia dei singoli stati e ha dato vita a un disgiunto potere federale, la cui sovranità è stata fatta discendere dalla volontà del “popolo degli Stati Uniti” e non da quella delle entità statuali preesistenti.

I federalisti americani hanno pensato di avere portato a termine un’opera senza precedenti nella storia dell’umanità. E tuttavia, per “tutto il corso dell’Ottocento, e sino alla Seconda guerra mondiale”, in Europa ci sono stati solamente dei “federalisti isolati”, fra i quali si colloca sicuramente Luigi Einaudi. Nelle lettere pubblicate sul “Corriere della Sera” con lo pseudonimo di Junius, egli ha utilizzato l’idea federalista per criticare il progetto della Società delle Nazioni, che lasciava inalterata la sovranità dei singoli stati. Ma l’ha anche usata per chiarire che i trattati che sarebbero stati stipulati dopo la Prima guerra mondiale non avrebbero risolto nulla, perché solamente “nazioni integrate” avrebbero potuto rendere pacifica e prospera la vita degli uomini. Sarebbe stato pertanto necessario abbandonare il “dogma funesto della sovranità assoluta”. Einaudi riteneva cioè che lo strumento per migliorare la condizione di un popolo fosse l’integrazione con gli altri popoli, la maggiore estensione possibile della cooperazione sociale volontaria. Il che si sarebbe potuto realizzare solamente tramite un processo di limitazione della sovranità nazionale e la creazione di una struttura federativa.

Robbins e Spinelli

Riprendendo l’argomento nel 1945, Einaudi ha scritto: “Oggi, vi è in Italia un gruppo di giovani, temprati dalla dura scuola della galera e del confino nelle isole, il quale è deliberato a mettere il problema della federazione in testa a tutti quelli i quali debbono essere discussi nel nostro paese”. Il “gruppo di giovani” a cui Einaudi si riferiva era costituito dagli autori del Manifesto di Ventotene. La vicenda è raccontata da Altiero Spinelli nella sua autobiografia: “La guerra, che stava tornando sulle terre d’Europa, indusse Ernesto Rossi e me a meditare più da vicino sui rapporti fra stati ed in particolare sul significato della povera Società delle Nazioni, di cui le democrazie erano andate fiere e che aveva così miseramente fallito. Scovammo così un volume di scritti di Luigi Einaudi (…), nel quale erano riprodotti alcuni suoi articoli pubblicati sul “Corriere della Sera” (…) sotto lo pseudonimo di Junius. (…). Sollecitato da Rossi, che come professore di economia aveva da tempo l’autorizzazione a corrispondere con lui, Einaudi gli mandò due o tre libretti della letteratura federalista inglese fiorita sul finire degli anni ’30 per impulso di Lord Lothian. Salvo il libretto di Robbins, ‘The Economic Causes of War’, che poi tradussi e fu pubblicato dalla casa editrice Einaudi, non ricordo né i titoli né gli autori degli altri. Ma la loro analisi del pervertimento politico ed economico cui porta il nazionalismo, e la loro presentazione ragionata dell’alternativa federale, mi sono rimaste fino ad oggi nella memoria come una rivelazione”.

Ecco il punto: Robbins non è stato solamente l’autore di “The Economic Causes of War”. È stato uno dei maggiori economisti liberali del Novecento.  Assieme a Friedrich A. von Hayek, aveva già sferrato un durissimo attacco al nazionalismo monetario. Egli aveva aperto la strada con “Economic Planning and International Order” (trad. it., Rizzoli, 1948). Ed era stato poi seguito da Hayek con “Monetary Nationalism and International Stability” (trad. it., Rubbettino, 2015). Robbins si era esplicitamente rifatto a Hamilton. E aveva scritto: “Nessuna persona ragionevole pretenderà che la costituzione americana offra uno strumento perfettamente adatto alle necessità di governare nelle condizioni tecniche attuali. Ma tenuto conto di ogni evidente lacuna, resta il fatto che i suoi ideatori hanno costruito uno strumento che ha riconciliato gli interessi di una popolazione molteplice, stanziata su un territorio estesissimo, creando un’area che non ha precedenti nella storia per la pace e la libertà di cooperazione economica di cui gode. Essi hanno affermato un principio che offre la sola speranza di sfuggire alla paura di distruzione che angoscia oggi l’umanità. E quando confrontiamo la pace e la ricchezza di questa grande Unione con il caos e l’anarchia delle disgraziate nazioni europee, noi sappiamo che l’opera dei suoi creatori non è stata vana e che essa è tuttora degna di essere difesa, anche con la lotta”.

Robbins riteneva che fra “tutte le forme di nazionalismo economico”, il nazionalismo monetario fosse “la più perniciosa”. Giudicava necessaria la creazione di un’area federale per poter avere una sola moneta. E la stessa cosa pensava Einaudi. Tuttavia, mentre quest’ultimo poneva al centro del sistema un unico istituto di emissione, confidando che ciò avrebbe posto fine alla stampa di biglietti per far fronte alla spesa pubblica, Robbins vedeva le cose in maniera problematica. Sapeva che lo stesso Walter Bagehot, “capo della corrente favorevole ai princìpi della banca centrale”, aveva espresso seri dubbi sulla validità di quella soluzione. E precisava: “Nessuno (…) ha ancora dimostrato che un sistema a riserve multiple, in cui ogni istituto bancario sia assolutamente privo di protezione dello Stato e strettamente soggetto all’applicazione delle leggi sul fallimento, provochi oscillazioni della riserva monetaria più favorevoli allo squilibrio di un sistema di riserva unica soggetto alla pressione politica”. Detto in forma più diretta, Robbins desiderava che la moneta fosse uno strumento della libera cooperazione sociale e non un mezzo in mano al ceto politico e ai suoi gruppi clientelari.

Dietro Il Manifesto di Ventotene, c’è quindi l’influenza diretta di Einaudi e di Robbins. Per Spinelli, combattere il nazionalismo e l’anarchia dei rapporti interstatuali mediante l’idea federativa significava evitare la “costituzione di un impero militarista basato sul principio della signoria dei vincitori e della servitù dei vinti”.  Il federalismo avrebbe quindi dovuto garantire quella libertà individuale di scelta che il nazismo intendeva cancellare.

Margaret Thatcher a Bruges

Nel suo discorso di Bruges (1988), Margaret Thatcher ha affermato che “alcuni padri fondatori della Comunità hanno pensato che gli Stati Uniti d’America potessero essere il loro modello”. Ma ha giudicato “l’intera storia dell’America (…) completamente diversa da quella dell’Europa”. È stata questa la sua premessa. Tuttavia, venendo alle questioni più specifiche, la Thatcher ha sostenuto che il Trattato di Roma è stato pensato come una “Carta della libertà economica”, successivamente letta e applicata in maniera diversa. Ha poi riconosciuto la necessità di “lavorare più strettamente sulle cose che possono essere fatte meglio assieme piuttosto che da soli”, dando la precedenza agli “scambi economici, alla difesa e alle relazioni con il resto del mondo”.  Si è attribuita il merito di avere ristretto la sfera dell’intervento dello Stato nell’economia britannica e si è energicamente opposta alla dilatazione di quella sfera a livello europeo, con la creazione di un “super-stato” e il “dominio” da parte di Bruxelles. Ha rivendicato con forza la superiorità dell’economia di mercato: “un’economia controllata dallo Stato è una ricetta per la bassa crescita”, mentre la “libera attività imprenditoriale, nell’ambito della sovranità del diritto, produce migliori risultati”. Ha infine respinto l’idea di creare una banca centrale europea.

Il “Discorso di Bruges” contiene delle legittime preoccupazioni, peraltro manifestate già in precedenza da Russell Lewis, un economista di Cambridge che aveva lavorato presso l’ufficio di Londra della Comunità Europea e che nel 1971 aveva pubblicato un libro dal significativo titolo “Rome or Brussels …?”. Egli aveva anticipato i pericoli derivanti da una costruzione europea basata su una concezione vietamente interventistica. E non si può dire che non sia stato lungimirante.

Scrivendo poi in anni più vicini a noi, Lord Harris, un grande sostenitore della Thatcher, si è in particolare soffermato sull’attività svolta da Jacques Delors, nel periodo in cui questi è stato presidente della Commissione europea. Lord Harris ha affermato: “Mentre il libero mercato veniva visto da Adam Smith come un mezzo per permettere alla libertà (…) di emergere attraverso la rimozione di quelli che lui chiamava ‘vincoli’, cioè depoliticizzando lo scambio, i dieci anni di Delors hanno visto un ineffabile processo di politicizzazione (…) più del settanta per cento della legislazione e dei sussidi comunitari fanno riferimento a gruppi di interessi specifici, a cominciare da quelli del settore agricolo. Non è una sorpresa che, con un così grande potere e con così numerosi privilegi da dispensare, la Commissione si sia rivelata una sorta di magnete che attrae un’imponente industria del lobbying, con tremila organizzazioni lobbistiche e centomila lobbisti che adorano stare a Bruxelles”.

L’Europa tradita

Era questa l’Europa che Einaudi, Robbins, Rossi, Spinelli intendevano realizzare? Erano questi gli ideali di coloro che sono cresciuti con il Trattato di Roma?  Conosciamo la risposta. Bisogna perciò correre ai ripari. Occorre comprendere che, essendo le risorse scarse, non è possibile dissiparle nel mantenimento di clientele politiche. Il restringimento della sfera d’intervento della mano pubblica non è un problema che riguarda solamente i singoli stati. Investe anche le istituzioni europee. Avevamo riposto su di esse la speranza che potessero determinare un superamento della cultura interventista. Ma non hanno fatto altro che riproporla su dimensioni continentali. E non solo. C’è la questione monetaria. La maggior parte degli economisti hanno lavorato con il “presupposto implicito” (José Antonio de Aguirre) che la moneta sia una creazione dello Stato e non un prodotto e un mezzo della cooperazione sociale volontaria. È giunto il momento di pensare seriamente a un diverso paradigma. L’idea di una banca centrale onnisciente, capace di decidere in ogni momento la quantità ottima dell’offerta monetaria, fa a pugni con le condizioni che rendono possibile la vita della società aperta, basata sul rifiuto di ogni preteso “punto di vista privilegiato sul mondo” e sull’idea del processo sociale come vero e proprio “procedimento di scoperta”.

È allora necessario trarre vantaggio dagli inconvenienti. La “Brexit” non deve spegnere il progetto europeistico. Lo deve riorientare. Ciò significa che, all’interno dell’odierno dissenso nei confronti delle istituzioni europee, bisogna distinguere nettamente due posizioni. Fra i critici dell’attuale organizzazione dell’Unione Europea, ci sono infatti coloro che vogliono sottrarla al suo perverso interventismo. Ma costoro non sono assimilabili a quanti sognano il ritorno al passato. I nostalgici del “buon tempo antico” dei nazionalismi (britannici, francesi, italiani o di altra origine) non vogliono una “carta della libertà” e non hanno alcuna possibilità di darci lo sviluppo economico che vorremmo. Possono solo peggiorare la nostra situazione: perseguono un interventismo che è diverso da quello di Bruxelles, solamente perché è di tipo provinciale. Il libero scambio, da cui tanto dipende l’aumento della produttività, la crescita e la creazione di nuovi posti di lavoro, non è compatibile con le vagheggiate svalutazioni competitive. Queste vengono invocate nel nome della “sovranità monetaria”, che è un’espressione ingannatrice. Le svalutazioni della moneta nazionale servono solo a favorire al momento alcuni gruppi di produttori a danno di tutti i consumatori. Portano soltanto vantaggi illusori. Non dobbiamo quindi consentire ai nostalgici del vecchio nazionalismo di narcotizzare la nostra ragione critica. Tanti anni fa, Alexander Hamilton ha scritto: “la maggior parte di coloro che hanno poi sovvertito la libertà delle repubbliche hanno cominciato la loro carriera tributando al popolo un ossequio cortigiano; hanno cominciato da demagoghi e sono finiti tiranni”. Dobbiamo allora guardare altrove. Alcune menti acute hanno tempestivamente visto nel progetto europeista una soluzione. Il ceto politico deve evitare di trasformare tale soluzione in un grosso e irrisolvibile problema.