di Lorenzo Infantino da “Formiche.net” del 30 ottobre 2016

Quando si parla di Alexis de Tocqueville, viene subito in mente la sua “Democrazia in America”. Si dimentica a volte che egli è stato anche l’autore de “L’antico regime e la rivoluzione”, un lavoro che non si confronta con un diverso argomento. Il tema è sempre lo stesso, “preso prima da un lato e poi dal suo contrario” (J. Ortega y Gasset). Il che è stato confermato in varie circostanze dallo stesso Tocqueville. Egli riteneva che “l’istituzione e l’organizzazione della democrazia nel mondo cristiano” fosse il “più grande problema politico” del suo tempo. Aveva ben compreso che il sistema democratico può fare da base alla libertà o al dispotismo. E ha fatto della ricerca delle condizioni che rendono possibile o impossibile una democrazia liberale il dramma della propria vita. Ecco perché, come tutti i commentatori riconoscono, è stato “incapace di scrivere per scrivere”. I suoi lavori non rispondono a formali e gregaristiche esigenze accademiche. Sono il permanente tentativo di gettare una sempre più potente luce su uno stesso interrogativo. Non è un caso che, soffermandosi su alcune recensioni apparse dopo la pubblicazione de “L’antico regime e la rivoluzione”, egli abbia rimproverato ai loro autori di non avere sufficientemente messo in luce il legame fra il nuovo libro e la “Democrazia”. In una lettera a uno dei suoi più cari amici, confidava: “l’unità della mia vita e del mio pensiero è la cosa che maggiormente desidero conservare agli occhi del pubblico”.

LA CADUTA DELLA MONARCHIA DI LUGLIO

Tocqueville non è stato solamente l’uomo che ha intellettualmente e drammaticamente esplorato il problema della democrazia. Per un non breve periodo della sua vita, è stato anche un attore politico. Eletto alla Camera dei deputati, è entrato in scena nel marzo del 1838; ne è uscito il 2 dicembre del 1851, con il colpo di Stato di Luigi Napoleone. Ha vissuto in prima persona la caduta della Monarchia di luglio, la nascita della seconda repubblica e l’ascesa del principe-imperatore. Ne ha dato in parte testimonianza nei suoi “Souvenirs”, che presentano, in mezzo a una straordinaria galleria di personaggi, un’analisi della sistematica incapacità degli uomini di governare fenomeni complessi come quelli politico-sociali. Sono stati scritti a immediato seguito di quegli eventi (alcuni capitoli a Sorrento, dove l’autore ha soggiornato vari mesi per motivi di salute) e pubblicati postumi nel 1893. Costituiscono l’antefatto de “L’antico regime e la rivoluzione” e sono la manifestazione della volontà di giungere al perché, nei sessant’anni trascorsi dalla rivoluzione del 1789, i francesi non siano riusciti a dare un assetto stabile alla democrazia e abbiano anche rinunziato alla libertà politica.

Che la Monarchia di luglio fosse sul punto di crollare, Tocqueville lo aveva ben compreso. In un discorso tenuto alla Camera il 27 gennaio 1848, parzialmente riportato nelle prime pagine dei “Souvenirs”, aveva affermato: “Quando mi metto a cercare nei diversi tempi, nelle diverse epoche, presso i diversi popoli quale sia stata la causa vera che ha condotto alla rovina le classi governanti, vedo bene l’avvenimento, l’uomo, la causa accidentale o superficiale; ma credete pure che la causa determinante, che ha fatto perdere agli uomini il potere, è stata sempre il fatto che essi sono divenuti indegni di tenerlo”. Tocqueville aveva poi posto ai colleghi parlamentari alcuni interrogativi: “Forse che la vita dei re è legata a un filo più saldo e più difficile da spezzare di quella degli altri uomini? Avete voi forse nell’ora presente la certezza del domani? Sapete voi forse quello che può accadere in Francia da qui a un anno, da qui a un mese, da qui a un giorno? Voi l’ignorate; ma quello che sapete è che la tempesta è all’orizzonte, che marcia su di voi. Vi lascerete dunque sorprendere da essa? Signori (…), volentieri mi metterei in ginocchio davanti a voi, tanto credo che il pericolo sia serio e reale, tanto sono convinto che segnalarlo non sia ricorrere a una vana forma di retorica. Il pericolo è grande: scongiuratelo mentre c’è ancora tempo; correggete il male con mezzi efficaci”.

Scendendo dalla tribuna, Tocqueville era stato affiancato da Jules Dufaure, appartenente al suo stesso gruppo parlamentare, il quale gli aveva detto: “Voi avete avuto successo, ma ne avreste avuto molto di più, se non aveste oltrepassato in quel modo il sentimento dell’assemblea e non vi foste proposto di farci tanta paura”. Ma il proposito di Tocqueville non era certo quello di spaventare i suoi colleghi. Egli era consapevole del fatto che, a causa del malgoverno e della corruzione, la Monarchia di luglio si trovava in uno stato di delegittimazione. Non chiedeva che si cambiassero le leggi o gli uomini al potere, ma quello “spirito del governo” che stava trascinando “verso l’abisso”.

Puntuale è poi giunto il 24 febbraio. Nel discorso della corona, tenuto in apertura della sessione parlamentare, Luigi Filippo aveva qualificato gli organizzatori dei banchetti per l’introduzione del suffragio universale maschile come “uomini eccitati da passioni cieche o nemiche”. Di qui la proibizione da parte del governo di un banchetto a Parigi, inizialmente programmato per il 19 febbraio e poi rinviato al 22. E di qui l’insurrezione, la caduta del governo e della monarchia orleanista.

LA RIVOLUZIONE DIVORA I SUOI FIGLI

Tocqueville non aveva partecipato alla campagna dei banchetti. Egli riteneva che, in caso di mancata sollevazione del popolo, gli organizzatori sarebbero divenuti “ancora più odiosi” agli occhi di coloro che stavano al governo e avrebbero reso “più salda” l’amministrazione che avrebbero voluto rovesciare. E pensava che, nel caso contrario, non sarebbero stati in grado di prevedere il reale corso degli eventi. Di ciò gli stessi organizzatori si sono progressivamente resi conto. Il banchetto finale è stato infatti deciso “loro malgrado”. Ed è stato impedito dal governo per svilire l’opposizione. L’esito è stato completamente diverso da quanto le parti auspicavano. Tocqueville ha annotato: “Bisogna aver vissuto per lungo tempo in mezzo ai partiti (…) per comprendere fino a che punto gli uomini si spingono a vicenda fuori dai loro propri disegni e come il destino di questo mondo proceda per effetto, ma spesso in maniera contraria alle nostre intenzioni”.

Nessuno è mai in grado di garantire l’esito delle proprie azioni. Il 24 febbraio la Camera dei deputati, più che un’assemblea, era una “moltitudine”: “I principali capi dei partiti erano assenti, gli antichi ministri erano in fuga, i nuovi non erano comparsi; si chiedeva a grandi grida di aprire la seduta, per un bisogno vago di azione, piuttosto che per un disegno stabilito; abituato a non fare nulla senza ordini, il presidente (Paul Sauzet) si rifiutava. E Tocqueville ha amaramente commentato: “È stata una grande sventura per la casa d’Orléans avere un onest’uomo di quel tipo a capo della Camera in una simile giornata: un briccone ardito avrebbe saputo fare di più”.

Fuori della Camera dei deputati la situazione non era migliore. Mentre attraversava la piazza di Palais-Bourbon, con l’idea di trovare un qualche aiuto all’esterno, Tocqueville è venuto a imbattersi in una “folla molto eterogenea, che accompagnava con esultanza”, Odillon Barrot e Gustave de Beaumont. Costoro si erano impegnati nella campagna dei banchetti. Avrebbero dovuto sentirsi vincitori. Ma “avevano il cappello cacciato fin sugli occhi, gli abiti sporchi di polvere, le gote infossate, l’occhio affaticato. Mai trionfatori sono stati più simili a persone che stanno per essere impiccate”. Avevano già percepito che nel processo rivoluzionario i leader vengono sistematicamente sorpassati “dall’opinione del giorno”. E ciò, come ha affermato nel 1793 una delle vittime della ghigliottina, significa che “la rivoluzione è come Saturno: divora i suoi figli”.

Tocqueville seguiva un’altra strada. Si proponeva di vincere la demagogia attraverso le istituzioni della democrazia liberale. Barrot e Beaumont si preoccupavano di costituire un qualche potere andando al Ministero degli Interni. Tocqueville si preoccupava di difendere la Camera dei deputati: perché, “in tempo di rivoluzione, i più modesti organi del diritto (…) assumono la massima importanza; (…) proprio in mezzo all’anarchia e nel crollo di ogni cosa, si sente il bisogno di ricorrere a un qualche simulacro di tradizione e di autorità per salvare quel che resta di una costituzione per metà distrutta o per farla sparire del tutto”.

La necessità di combattere la demagogia mediante le istituzioni della democrazia liberale è anche il tema di una drammatica discussione con Jean-Jacques Ampère, figlio del famoso fisico e matematico. Ampère “era assai incline a trasportare nella letteratura la mentalità dei salotti e nella politica la mentalità letteraria”. Era stato entusiasta della caduta di personaggi che disprezzava. Ma era lontano dal comprendere la portata degli avvenimenti. E Tocqueville ha dovuto spegnere il suo entusiasmo: “Voi non capite nulla di quello che accade, e giudicate come un babbeo parigino o come un poeta; chiamate trionfo della libertà quella che è l’ultima sua sconfitta. Vi dico che questo popolo che voi con tanta ingenuità ammirate dimostra ancora una volta di essere incapace e indegno di vivere libero. Mostratemi che cosa gli ha insegnato l’esperienza, quali nuove virtù gli ha fornito e quali vizi gli ha tolto. No, vi dico, esso è sempre lo stesso: impaziente, irriflessivo, dispregiatore delle leggi”.

SUL DIRITTO AL LAVORO

La rivoluzione non è stata prodotta dalla condizione di bisogno delle classi operaie. In una lettera del 10 aprile 1848 a Nassau W. Senior, Tocqueville ha scritto che sono state le “idee a generare quel grande rivolgimento”. La Monarchia di luglio era facilmente aggredibile per via della propria delegittimazione. E su quel terreno fecondo hanno operato le “idee chimeriche sulla condizione relativa dell’operaio e del capitale, le esagerate teorie sulla funzione che avrebbe potuto essere svolta dal potere sociale nei rapporti fra la classe operaia e quella padronale, le dottrine ultra-centralistiche che avevano convinto moltitudini di uomini a credere che dallo Stato sarebbe dipeso non solo l’affrancamento dalla miseria, ma anche l’agiatezza e il benessere, (… una) malattia dello spirito”.

Le “teorie socialiste” sono state la “filosofia della rivoluzione di febbraio”. Il loro bersaglio è stato la proprietà privata. Accumulando tutti i capitali nelle proprie mani, lo Stato sarebbe diventato il “proprietario di ogni cosa”; e le libertà individuali sarebbero venute meno. In tale clima, è stata avanzata la proposta di introdurre nella nuova Costituzione il “diritto al lavoro”: perché non si desiderava aiutare i più disagiati, ma si pretendeva di obbligare lo Stato a eliminare con propri provvedimenti la disoccupazione. Contro tale iniziativa, Tocqueville ha preso la parola nella seduta del 12 settembre 1848 dell’Assemblea costituente. Egli è stato estremamente chiaro: se s’impone tale obbligo allo Stato, ciò porta “forzatamente a distribuire i lavoratori in modo che non si facciano concorrenza, spinge a regolare i salari, a limitare a volte la produzione, a volte ad accrescerla, in una parola a creare un grande e unico organizzatore del lavoro”. E ciò non è altro che socialismo. È “sfiducia profonda nella libertà”, “profondo disprezzo per l’individuo”. È l’idea che lo Stato debba essere il “padrone di ogni uomo”, debba “porsi permanentemente al suo fianco, sopra di lui, attorno a lui, per guidarlo, garantirlo, mantenerlo”. Siamo di fronte alla “confisca” della libertà umana. L’antico regime “professava l’opinione secondo cui l’unica saggezza è nello Stato”, poiché i sudditi sono degli “esseri infermi e deboli”, bisognosi di “essere tenuti per mano”. La stessa cosa, concludeva Tocqueville, sostengono i socialisti di oggi.

Nassau W. Senior, economista e “precettore generale dei Whigs”, ha totalmente condiviso tale diagnosi. Egli aveva già scritto: il “potere delle leggi umane di punire la mancanza di qualità (…) è molto basso; il potere di creare direttamente qualcosa è ancora inferiore; (mentre) il potere di distruggere è praticamente irrefrenabile”. Più tardi aggiungerà: “Occorre un lungo ragionamento per mostrare come il capitale, da cui dipendono i miracoli della civiltà, sia la creazione lenta e faticosa del risparmio, dell’iniziativa di qualcuno e del lavoro di molti (…); lo Stato può certamente condurre alla rovina i ricchi, ma altrettanto certamente può determinare un peggioramento delle condizioni dei più disagiati”. Tocqueville non era un economista. Sapeva tuttavia che una società liberale deve rispettare il principio della limitazione del potere pubblico. E misurava ogni provvedimento sulla base delle conseguenze prodotte sulla sfera d’intervento dello Stato e sulla libertà individuale di scelta. Non aveva bisogno di fare altre indagini. Capiva che “il gusto delle pubbliche funzioni e il desiderio di vivere sul bilancio” sono sovente la “grande e permanente infermità di un’intera nazione”.